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Capitolo 1 - La mia morte

Ho viaggiato in un lontano paese, in quelle regioni che presso di voi sulla Terra non hanno un nome e che nessuno di voi ha mai visitato. Vorrei brevemente narrarvi di questi viaggi affinché chi intraprende, laggiù, il mio stesso cammino, sappia cosa lo attende.

Ho vissuto, nel corso della mia esistenza terrena, alla maniera di chi non cerca che una cosa: procurarsi le più grandi gioie del mondo. Quando ero gentile con qualcuno, o indulgente con qualcun altro, lo ero sempre con l’idea che ciò mi sarebbe servito in un modo o in un altro e che, grazie alle mie ricchezze ed al mio affetto, avrei potuto conquistare la loro riconoscenza ed i loro omaggi, cose alle quali tenevo tantissimo.

Il Cielo mi aveva largamente elargito doni intellettuali e fisici e, fin dalla più tenera età non mi erano mancati gli elogi; questi erano per me il dolce profumo della vita. Mai nel mio animo era penetrata la nozione di amore sacrificale, quell’amore che si dona in modo incondizionato, e che ha come solo fine la felicità di un altro. Tra tutte le donne che avevo amato (così dicono gli uomini che confondono le loro passioni egoistiche con l’amore) o tra quelle che, di volta in volta, catturavano la mia immaginazione, non ne avevo incontrato una sola che avesse risvegliato la mia natura superiore e mi avesse ispirato un amore vero, ideale verso il quale segretamente aspiravo. In tutte trovavo sempre qualcosa che mi deludeva. Mi amavano come io le amavo, né più e né meno. La passione che a loro dedicavo faceva sì che ricevessi in cambio un sentimento simile. Così vivevo, insoddisfatto di un desiderio che anch’io ignoravo.

Feci molti errori - oh quanti! Commisi molti peccati. Eppure, la gente si accalcava ai miei piedi per lodarmi, per dirmi che ero buono, nobile e pieno di talento. Fui festeggiato, corteggiato, coccolato da tutte le dame della società. Era sufficiente che esprimessi un desiderio per vederlo realizzato. Eppure, non appena ottenevo qualcosa, tutto prendeva un gusto amaro. Poi accadde che commisi un errore fatale, su cui non mi dilungherò, che costò la vita a due persone. Non mi fecero più indossare una ghirlanda di rose, ma pesanti ceppi di ferro che mi stringevano e mi scorticavano la pelle. Un giorno riuscii a spezzarli e fuggii dalla prigione; ero libero. Libero? Povero me! Non sarei mai più stato libero, perché gli errori che abbiamo commesso non cessano mai di inseguirci e frapporsi al nostro destino, in questa vita come nella prossima, finché non sono espiati uno ad uno.

Un giorno - quando ormai pensavo di aver capito tutto dell’amore delle donne - incontrai Bianca.[1] Per me era molto più di una donna mortale, la chiamai «il buon angelo della mia vita». Dal momento in cui la conobbi, mi prostrai ai suoi piedi e le consacrai tutto l’amore di cui la mia anima - la mia anima superiore - era capace; un amore povero ed egoista, se paragonato a quello che avrebbe dovuto essere, ma era tutto ciò che avevo e glielo donai senza riserve. Per la prima volta nella mia vita, pensai ad un’altra persona più che a me stesso. E benché fossi incapace di innalzarmi al livello dei pensieri puri e delle visioni luminose che riempivano la sua anima, ringrazio Dio di avermi preservato dalla tentazione di abbassarla fino a me.

Il tempo passava. Mi riscaldai alla dolce presenza di Bianca. Ritrovai in me i nobili pensieri che albergavano nella mia mente ai tempi della mia gioventù e che, fino a quel momento, credevo mi avessero abbandonato per sempre. Ora aspiravo ad una vita migliore e, nei miei sogni più belli, m’immaginavo libero dalle catene del passato. Queste però mi trattenevano sempre in modo crudele, e mi svegliavo spesso dai miei sogni con la paura che qualcun altro potesse conquistare il cuore di Bianca e che lei potesse negarmi il suo amore. Sapevo, ahimè, che non avrei avuto alcun diritto di trattenerla. Quali sofferenze riempivano allora la mia anima! Perché sapevo che ero io, e solo io, ad aver costruito un muro tra di noi. Sentivo che, dopo essermi sporcato in una vita mondana, non ero degno di toccarla. Come avrei potuto legare quella vita candida e pura alla mia? A volte si risvegliava in me la speranza che ciò potesse avverarsi, ma la coscienza mi diceva sempre: No! E, malgrado la sua profonda tenerezza, che mi lasciava intuire l’innocente segreto del suo amore, percepivo, sapevo che su questa Terra lei non sarebbe mai stata mia. La sua purezza e la sua rettitudine innalzavano tra noi una barriera insormontabile. Invano avevo cercato di lasciarla. Ero attirato verso di lei come da una calamita, e tornavo sempre da lei. Un giorno smisi di resistere e, senza riserve, mi abbandonai alla felicità della sua presenza.

Fu allora che improvvisamente, come un ladro nella notte, arrivò il giorno spaventoso in cui fui strappato alla vita e gettato in quel baratro che ci attende tutti: la morte del corpo.

Non capii però di essere morto. Dopo alcune ore di sofferenza e di agonia, sprofondai in un sonno profondo, senza sogni. Quando mi svegliai ero solo, immerso in un’oscurità totale. Potevo alzarmi, potevo muovermi; sicuramente mi sentivo meglio, ma dove ero? Perché quella oscurità? Perché non mi avevano lasciato un lume? Mi alzai, avanzai tentoni, ma non trovai alcuna lampada e non sentii alcun suono. Attorno a me non c’era che la calma oscurità della morte.

Mi mossi alla ricerca della porta. Potevo spostarmi, anche se lentamente e faticosamente, ed avanzai alla cieca. Per quanto tempo abbia continuato a cercare, non lo so. Preso dall’angoscia, volevo ad ogni costo trovare qualcuno o qualche mezzo per uscire da quel luogo. Ero disperato, non avevo trovato nessuna porta, nemmeno un muro. Nemmeno il più piccolo oggetto. Attorno a me non c’erano che vuoto e tenebre.

Infine, preso dal panico, cominciai ad urlare; urlai, ma nessuno mi rispose. Chiamai di nuovo, ma non c’era altro che silenzio.

Nemmeno l’eco della mia voce tornava verso di me per incoraggiarmi. Mi ricordai di colei che amavo, ma qualcosa mi impediva di pronunciare il suo nome. Pensai a tutti gli amici che avevo conosciuto e li chiamai. Nessuna voce mi rispose.

Ero in prigione? No! Una prigione ha dei muri, e quel luogo non ne aveva. Ero forse impazzito? Potevo percepire il mio corpo, era lo stesso che conoscevo. Veramente lo stesso? No! Aveva subito dei cambiamenti. Non potevo sapere quali, ma era come se si fosse rattrappito e deformato. Quando passai le mani sul mio viso, i tratti mi parvero più grossolani, più rudi, certamente sfigurati.

Cosa non avrei dato per un lume, per qualunque cosa potesse darmi una spiegazione del mio stato! Sarebbe mai venuto qualcuno? Ero veramente solo? E Bianca, il mio angelo di luce, dove era? Prima del mio sonno si trovava vicino a me. Dov’era ora? Qualcosa esplose nella mia testa. Con tutte le mie forze la chiamai per nome, chiedendole di venire almeno un’ultima volta! Provavo la spaventosa sensazione di averla persa, e la chiamai come un pazzo. Allora, per la prima volta, udii la mia voce risuonare nell’oscurità.

Distinsi davanti a me, molto lontano, un debole chiarore, che avvicinandosi aumentò sino a divenire una grande luce a forma di stella. In essa vidi la mia amata. I suoi occhi erano chiusi, come se stesse dormendo, ma le sue braccia erano tese verso di me e la sua dolce voce mi parlò col tono che conoscevo così bene. «Ah, amore mio, dove sei ora? Non ti vedo e sento solo la tua voce. Mi chiami e la mia anima risponde alla tua».

Mi sforzai di innalzarmi fino a lei ma non ci riuscii. Una forza invisibile mi tratteneva. Mi sembrava che lei si trovasse all’interno di un cerchio per me insuperabile. In preda al più grande sconforto, mi gettai al suolo supplicandola di non lasciarmi più. Allora sembrò che lei cadesse nell’incoscienza. La sua testa si chinò sul petto, poi scomparve, come se fosse stata portata via da braccia robuste. Cercai di alzarmi per seguirla, ma non ci riuscii. Mi sentivo come incatenato. Dopo alcuni sforzi vani, caddi svenuto al suolo.

Quando ripresi i sensi, provai la gioia di rivedere Bianca vicino a me. Questa volta, mi appariva come l’avevo sempre conosciuta ma era triste, pallida e vestita di nero. La stella era scomparsa, e tutto era scuro. Tuttavia l’oscurità non era totale, poiché lei era attorniata da un debole chiarore che mi consentiva di vedere che portava dei fiori, dei fiori bianchi. Si chinò su un monticello di terra fresca. Avvicinandomi a lei, vidi che piangeva piano mentre posava i fiori. Mormorava sottovoce: «Amore mio, non tornerai mai da me? È possibile che tu sia veramente morto, e che tu sia andato dove il mio amore non può più seguirti? Dove tu non puoi più sentire la mia voce? Amore mio, caro amore mio!».

Si inginocchiò; mi avvicinai a lei, ma non potevo toccarla. Mi inginocchiai anch’io, e guardai verso il lungo monticello di terra. Un brivido di terrore mi percorse, perché scoprii che quella era la mia tomba.

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