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9 - IL LUNGO CAMMINO DEI PROFUGHI

Sun-Myung Moon ed i suoi due compagni si sedettero a lato della strada e mangiarono qualcosa; nel frattempo, poche miglia più a nord, le truppe comuniste stavano entrando in Pyongyang. Dopo un breve riposo i tre, ignari della caduta della città, continuarono nel loro viaggio. Nel tardo pomeriggio del primo giorno si fermarono presso una casa abbandonata. Kim e Pak erano preoccupati per l’incertezza che li aspettava.

«Può sembrare pericoloso, ma non vi preoccupate – disse Moon – perché siamo uniti come una trinità, quindi Dio è con noi. La strada che stiamo percorrendo oggi è una strada storica che ci porterà al cielo. Dobbiamo percorrerla con uno spirito ripieno di gioia e di pace». Dopo di ciò pregarono e si misero a dormire.

Al mattino si alzarono presto e cucinarono del riso sufficiente per colazione e pranzo. Nel corso della prima settimana percorrevano solo sette o otto chilometri al giorno. Il tempo era cattivo, ed il trasporto di Pak sulla bicicletta era difficile. Dal momento che là dove avevano attraversato il fiume non c’erano ferrovie, rinunciarono al progetto di salire su un treno. Camminavano lungo strade secondarie per evitare la strada principale, intasata da soldati e rifugiati.

Il ritmo del cammino era lento. Partivano nella tarda mattinata e verso le tre o le quattro del pomeriggio cominciavano a cercare un posto dove passare la notte. Pak era l’organizzatore e pianificava le razioni di cibo. Kim cucinava, usando delle quantità leggermente maggiori di quelle indicate da Pak. Non sapeva se Pak lo notava, comunque non diceva nulla.

Il settimo giorno raggiunsero un punto tra le città di Heug-gyo e Hwangju, dove la strada diventava molto ripida. Si fermarono, impossibilitati a trasportare Pak oltre la salita. Questi si sedette sul bordo della strada e disse ai compagni: «È impossibile che riusciate a portarmi oltre la collina. Andate avanti e portate a termine la vostra missione senza di me. Avete tanto da fare. Per causa mia non raggiungerete mai il sud. Io cercherò di sbrigarmela in qualche modo».

«No» disse Moon. «Won-pil, occupati della bicicletta, io porterò Chong-hwa». Così riuscirono a superare la salita, trasportando Pak sulla schiena per parte del percorso e trascinandolo per il resto. Quella sera Moon disse che, per mantenere la protezione di Dio, dovevano restare uniti e non dovevano nemmeno prendere in considerazione l’idea di separarsi, qualunque fossero le circostanze in cui si sarebbero venuti a trovare: «Dobbiamo formare una trinità unita. È così che Dio può restare con noi. Queste sono solo delle piccole sofferenze rispetto alla missione che ci aspetta. Quindi dobbiamo superarle».

Il decimo giorno raggiunsero la città di Sariwon, dove si aspettavano di poter percorrere la strada principale per Seul. La strada però era riservata all’uso militare ed i rifugiati venivano dirottati lungo la strada costiera, che attraversava la città di Haeju.

La strada era percorsa da una gran massa di profughi. Uomini e donne portavano sulla schiena oggetti o bambini piccoli; a volte dei bambini più grandi si perdevano nella confusione. Gli aerei americani attaccarono le colonne dei rifugiati tre volte: i servizi di informazione avevano scoperto che dei nordcoreani, che in quel momento ormai controllavano la zona, stavano usando il flusso dei profughi per infiltrarsi dietro le linee. Ciascun attacco uccideva tre o quattrocento persone(1). I sopravvissuti scavalcavano i corpi e continuavano verso sud. Durante un attacco furono uccise delle persone che camminavano proprio davanti a Moon ed ai suoi compagni.

Moon cercò di calmare gli altri due: «Il Cielo ci protegge. In Heungnam, Dio mi ha promesso che nessuno di coloro che mi sarebbero restati vicini si sarebbe ferito. Non vi preoccupate».

Le forze dell’ONU erano in ritirata; i comunisti locali avevano già ripreso il controllo di città e villaggi e si preparavano ad accogliere le forze nordcoreane. Pak aveva prestato servizio nella zona di Sariwon e conosceva bene la strada, ma era preoccupato dal fatto che avrebbero potuto essere respinti; perciò suggerì: «C’è un punto in Haeju dove la strada si restringe tanto che anche solo quattro soldati potrebbero bloccarla. Secondo me dobbiamo deviare per Cheongdan. Sarebbe più sicuro». Decisero così di non seguire il flusso verso Haeju. Più tardi vennero a sapere che i profughi che erano entrati in città erano stati rimandati nei loro villaggi dalle autorità comuniste.

Sulla via per Cheongdan, seppero che alcuni fuggitivi pensavano di raggiungere l’isola di Yongmae e prendere una barca per Inchon. Moon disse che avrebbero dovuto farlo anche loro. Sull’isola viveva un suo amico, che aveva conosciuto quando era studente in Giappone, la cui famiglia aveva un’attività commerciale di pesca. Arrivati sulla costa trovarono la bassa marea; poterono così percorrere le poche centinaia di metri che li separavano dall’isola. Moon disse a Kim di andare avanti con la bicicletta; egli prese Pak sulle spalle e raggiunsero l’isola, ma la casa dell’amico era deserta. Passarono lì tutta la giornata; cucinarono del riso, preparandone anche per il giorno dopo. Quella famiglia aveva abbandonato il proprio peschereccio, che i tre decisero di usare per raggiungere Inchon.

Quella notte dormirono nel peschereccio che al mattino, con la marea montante, cominciò a galleggiare. Un po’ alla volta giunsero altri fuggiaschi che cominciarono a salire a bordo, raggiungendo il numero di circa centocinquanta. Prima che potessero salpare, giunsero dei soldati sudcoreani che lo requisirono per evacuare militari, poliziotti e le relative famiglie. Dovettero quindi sbarcare; distrutti, raggiunsero di nuovo la terraferma e si diressero verso Kaesong.

Lungo una stradina, nei pressi di Cheongdan, quattro contadini bloccavano la strada: «Dove state andando?» chiesero. Erano armati.

«Siamo rifugiati. Ci dirigiamo a sud»

«Dobbiamo controllarvi. Mostrateci i documenti», disse uno di loro guardando Moon. I capelli di Sun-myung non erano ancora cresciuti completamente, quindi pensavano fosse un soldato.

«Non ne ho», rispose lui.

«Vieni con noi. Anche tu» disse l’uomo indicando Kim. Pak restò vicino alla bicicletta, e gli uomini portarono via i due compagni. Non poteva far altro che aspettare. I quattro erano probabilmente civili che si erano autonominati poliziotti, pensò; degli anticomunisti armati che derubavano i fuggiaschi e senza dubbio uccidevano quelli che consideravano comunisti. Si trovavano lungo una strada deserta che attraversava dei campi e non c’erano case in vista. Un’ora e mezzo dopo Moon e Kim ritornarono.

Won-pil aveva le lacrime agli occhi: «L’hanno picchiato», disse. I quattro li avevano condotti ad un villaggio vicino e li avevano interrogati. Moon aveva detto loro di essere un ministro religioso e che era stato liberato da poco dalla prigione, ma non gli avevano creduto nemmeno dopo che avevano trovato la Bibbia tra le sue cose. Alla fine, uno dei vigilantes disse: «Se sei un pastore, cosa dice Giovanni 16:1?». Moon recitò il versetto e gli uomini, convinti che dicesse la verità, li lasciarono andare.

«Se avessi avuto una pistola li avrei uccisi», affermò Pak.

«Non pensare alla vendetta» ribatté Moon. «Dobbiamo essere pazienti nel cuore. Quella di oggi è solo una piccola sofferenza. Fra un giorno giungeremo in un posto dove ci serviranno del cibo straordinario». Pak pensò che stava solo cercando di consolarli.

Il giorno seguente giunsero ad una casa vicino ad uno stagno. Da lontano vedevano un uomo che entrava ed usciva dalla casa, come se stesse aspettando qualcuno. Si diressero verso di lui e l’uomo, quando li vide, li invitò ad entrare. All’interno era pronto un tavolo con del cibo, coperto da un foglio di carta per proteggerlo dalla polvere. L’uomo e sua moglie fecero sedere Moon là dove il riscaldamento era migliore. Normalmente avrebbero dovuto offrire quel posto a Pak, che era la persona più anziana; i due però, entrambi Anziani di una chiesa locale, spiegarono che avevano sognato contemporaneamente, due giorni prima, che sarebbero giunti due ospiti importanti e che avrebbero dovuto trattarli bene. I tre erano proprio come li avevano sognati e sapevano che Moon doveva essere servito come la persona di maggior riguardo.

Kim e Pak erano strabiliati; quest’episodio rafforzò la loro fiducia in Moon. Per Pak, un leader per natura e per posizione sociale, quell’esperienza fu umiliante. Kim invece, che aveva sempre provato un timore reverenziale per la propria guida spirituale, sentì che la propria mancanza di fede ed il bisogno che aveva di essere costantemente incoraggiato costituiva in qualche modo il motivo delle percosse subite da Moon il giorno prima. Durante il cammino arrivò a capire anche il semplice fatto che Moon soffriva la fame e le privazioni proprio come chiunque altro.

«Non avevo capito che lei avesse gli stessi sentimenti e sensazioni di qualunque altra persona», gli disse un giorno. «Se fossi stato uno dei discepoli di Gesù duemila anni fa, avrei forse immaginato la stessa cosa di lui e se fosse stato affamato non gli avrei offerto del cibo. Avrei immaginato che non ne aveva bisogno, e magari sarebbe morto di fame a causa mia…».

Trascorsero la notte nella casa della coppia ed il giorno dopo si rimisero in viaggio.

Ogni notte, quando alloggiavano in una casa vuota, Kim accendeva il fuoco per accendere il sistema di riscaldamento tradizionale a pannelli radianti. Una notte usò i pali laterali di una barella, che aveva trovato accanto ad una tomba sulla collina vicino alla casa. Probabilmente la famiglia che vi alloggiava aveva usato la barella per trasportare il corpo alla tomba e l’aveva abbandonata lì. Mentre Kim accendeva il fuoco gli altri due si preparavano per dormire nella stanza accanto.

«Che legna stai bruciando?» chiese Moon improvvisamente.

«Ho cercato dappertutto della legna ma non ce n’era. Ho trovato solo questi pali vicino ad una tomba sulla collina. Sono i manici di una barella».

«Non tutta la legna può essere usata per fare il fuoco» disse Moon. Sapeva, pensò Kim, che quella legna proveniva da un sito tombale.

Cominciarono a viaggiare con un senso di urgenza sempre maggiore. Pak non era ancora in grado di camminare e doveva essere trasportato sulla bicicletta, ma riuscivano a percorrere venti o trenta chilometri al giorno. Una notte, dopo aver cenato in una casa abbandonata in Jangdan, una città vicina al fiume Imjin ed alle linee delle Nazioni Unite, Kim e Pak, stanchissimi, si addormentarono immediatamente.

«Sveglia. Dobbiamo andare». Era Moon che scuoteva Pak dal sonno.

«Non possiamo restare qui solo stanotte?» chiese Pak, che dormiva da meno di un’ora.

«No, dobbiamo andare». Won-pil era in un sonno profondo, e fu difficile svegliarlo. «Dobbiamo andare o succederà qualcosa di terribile» insistette Moon. Raccolsero rapidamente le poche cose che avevano e partirono. Si affrettarono nell’aria frizzante della notte e poco dopo raggiunsero il fiume. Non era ancora completamente gelato, ma riuscirono ad attraversarlo servendosi di un ampio banco di ghiaccio.

Sull’altra riva un soldato americano li fermò e condusse via Moon e Kim per un interrogatorio. Pak attese per oltre un’ora sulla bicicletta. Ritornarono con dei guanti militari. I sudcoreani dissero loro che avevano pianificato di erigere entro poche ore delle barriere per impedire alle truppe nordcoreane e cinesi di attraversare il fiume. I tre sarebbero quindi stati gli ultimi rifugiati a poterlo attraversare ufficialmente.

«Capite adesso perché vi ho svegliato?» disse loro Moon.

Raggiunsero quindi Munsan e poi Seul. La vigilia di Natale attraversarono il fiume Han e giunsero ad Heuksok-dong, dove Moon aveva frequentato la scuola dieci anni prima. Pak e Kim erano sconvolti dalla devastazione della città. Per entrambi era la prima volta che giungevano in Corea del Sud.

«Ho molti amici qui, compagni di fede», affermò Moon per incoraggiarli. Li condusse da Lee Kee-bong, la sua ex padrona di casa. Alcune persone della famiglia di lei si trovavano nel cortile; Moon si rivolse a loro senza alcun saluto formale, chiedendo: «Dove sono mia moglie e mio figlio?»(2).

«Guarda chi si vede. Entri. Sua moglie è a Pusan», gli risposero.

Moon ed i suoi compagni restarono per una settimana, ma dal momento che la casa, composta di due stanze, era troppo affollata, si spostarono nella casa vuota di un suo vecchio amico, Kwak No-pil, che aveva condotto la propria famiglia a Pusan. Lì trascorsero le quattro notti successive. Avevano ormai finito le scorte di cibo, così Kim bussò a varie case per chiederne. Le trovò tutte vuote. Entrò in alcune di esse ed in una trovò del riso. Euforico, ritornò alla casa di Kwak e cominciò a cucinarlo.

«Dove lo hai trovato?» chiese Moon.

«In una casa vuota», replicò Kim.

«Se prendi qualcosa a qualcuno, devi proporti di restituirgli tre volte quanto gli hai preso. Se prendi questo impegno con te stesso allora puoi prendere il cibo, ma ad un certo punto devi restituirlo sostanzialmente», gli rispose.

Il 1° gennaio 1951 giunsero dei poliziotti e condussero via Moon e Kim. Il governo stava arruolando tutti gli uomini abili, in particolare i rifugiati, per formare delle unità locali dell’esercito. A motivo dell’età e della caviglia rotta, Pak fu esentato dalla leva. A Kim fu imposto di presentarsi ad un esame medico, e Moon fu portato in una stazione di polizia vicino a Piwon, nel centro di Seul, per essere interrogato: i suoi capelli corti avevano di nuovo sollevato dei sospetti. Fu fermato per la notte ed al mattino seguente fu interrogato di nuovo. Quindi Kim giunse per visitarlo(3).

«Se non posso vederla più, come posso continuare ad andare avanti? Come posso mantenere la mia fede? Cosa posso fare da solo? Per favore, mi dia qualche consiglio!» chiese Kim, temendo che non avrebbe più rivisto Moon.

«Segui la tua mente, la tua mente originale. Ti guiderà e vivrai secondo la sua direzione».

Kim cercò di spiegare ad uno dei poliziotti che Moon era la sua guida spirituale, che era stato imprigionato dai comunisti, che erano fuggiti al sud come profughi. Il poliziotto, notando l’aspetto delicato del giovane Kim, le sue labbra spesse, il suo sorriso ed il tono acuto della voce, pensò che fosse una donna, forse la moglie di Moon, vestita da uomo.

«Vieni qui e togliti la camicia», gli disse conducendolo in una stanza vuota. Kim obbedì; verificata così la veridicità del racconto, il poliziotto liberò Moon, ed ordinò ad entrambi gli uomini di firmare per arruolarsi nell’esercito. Il procedimento di arruolamento iniziò con un esame medico. I soldati spiegarono che coloro che erano ammalati dovevano formare una fila separata. Moon, anche se in gioventù era stato un lottatore ed era aduso alla fatica fisica, sapeva che la sua missione sarebbe finita se avesse sparso del sangue. Si unì alla fila dei malati e chiese a Kim di unirsi a lui. Kim aveva dei dolori di schiena, a seguito di una caduta da un tetto mentre Moon era in prigione a Pyongyang, ma dubitava che questa scusa avrebbe convinto il medico: subito prima di loro, erano stati arruolati un uomo con un occhio solo ed un altro con le emorroidi.

Moon spiegò che era appena fuggito dalla prigione e descrisse le sue cattive condizioni, così fu dichiarato inabile. Kim parlò del suo mal di schiena e, con grande sorpresa, anche lui fu dichiarato inabile. In realtà nessuno dei due aveva bisogno di esagerare. Entrambi erano estremamente indeboliti ed esausti del viaggio, ed in una forma fisica peggiore di quella di altri cittadini e profughi in fila con loro ma che avevano raggiunto il sud in treno. Vennero quindi concessi loro dei certificati di esonero dal servizio.

«Ti saresti preoccupato per noi se fossimo stati arruolati, ma per fortuna il Cielo ci ha aiutati», disse più tardi Moon a Pak Chong-hwa. Altri giovani rifugiati arruolati quell’inverno nel Corpo di Difesa Nazionale non furono altrettanto fortunati. Buona parte dei fondi destinati all’equipaggiamento del Corpo di cinquecentomila uomini fu rubata; il risultato fu che le truppe non ricevettero mai i rifornimenti che aspettavano. In migliaia soffrirono il gelo; si calcola che varie centinaia di soldati morirono di denutrizione. Nella primavera del 1951, i responsabili del Corpo furono sottoposti a processo e fucilati(4).

I tre raggiunsero la stazione di polizia con la signora Lee in qualità di testimone e ricevettero dei documenti che li qualificavano come profughi.

Intanto le forze cinesi e nordcoreane si avvicinavano a Seul. I governanti sudcoreani, sempre più preoccupati e sotto pressione, cominciarono a fucilare i prigionieri e gli oppositori politici(5). La capitale, bombardata ed ormai con poche strutture in funzione, stava per cambiare di mano per la terza volta. Il 3 gennaio le forze dell’ONU la abbandonarono.

Un visitatore giunse alla casa di Lee. Moon ne riconobbe la voce ed uscì per salutarlo. Era Kim Hee-son, che era stato uno degli Anziani della chiesa di Myongsudae, che Moon aveva frequentato quando era studente.

«Vai ancora alla chiesa?» domandò Moon.

«No, ho smesso». Kim Hee-son aveva litigato con il pastore, Kwon Duk-pal: «Il Reverendo Kwon continuava ad arrabbiarsi moltissimo con coloro che arrivavano in ritardo. Chiudeva a chiave la porta della chiesa all’inizio della funzione. Adesso è andato al nord»(6).

«Stiamo andando a Pusan. Vuoi venire con me?» gli chiese Moon.

«Non posso. Ho una famiglia di nove persone di cui prendermi cura» rispose Kim. Li aiutò a preparare dei documenti che dimostravano che Moon aveva abitato ad Heuksok-dong.

Si incamminarono prendendo coperte e cibo dalla casa di Kwak(7). La strada principale portava verso sud attraverso Suwon, ma loro si diressero verso sudest passando per Ichon, Yoju, Wonju e Jechon, dove viveva una delle sorelle di Pak. Seguirono lo stesso programma della prima parte del viaggio, solo che vi erano meno case vuote lungo la strada. Molti anziani avevano preferito non lasciare la loro abitazione. Chiedevano loro se potevano passarvi la notte e dovevano trasportare, o acquistare, il cibo. La casa della sorella di Pak era vuota e vi trascorsero la notte. Più andavano verso sud, più frequentemente venivano loro chiesti i documenti di identità: anche i più piccoli villaggi avevano organizzato delle ronde. I profughi senza documenti in regola venivano a volte percossi o uccisi.

Da Jechon si incamminarono lungo la strada che in passato aveva costituito il principale mezzo di collegamento tra Seul ed il sudest prima della costruzione della ferrovia. Un giorno impiegarono sette o otto ore per superare il passo di Moongyeong, alla frontiera tra le province del Chungchong del Nord e del Kyongsang del Nord. Kim portava la bicicletta e Moon trasportava Pak lungo il percorso ripido e ghiacciato, coperto di neve fresca. Alla cima del passo attraversarono l’antica porta. Si fermarono nella città di Caun. La gamba di Pak stava migliorando, e da lì in avanti riuscì a pedalare senza essere spinto.

Il giorno dopo, a Jeomchon, Moon chiese a Pak di andare in una casa vicina, di offrire alla famiglia che l’abitava qualche moneta e di chiedere loro di fare dei dolci di riso. Pak spiegò agli abitanti della casa che erano dei rifugiati in viaggio da due mesi. Gli abitanti della casa fecero dolci di riso per dieci persone; i tre erano così affamati che ne mangiarono molti. Restarono in città per quattro giorni prima di continuare il viaggio.

In un luogo chiamato Yeongcheon, Moon estrasse una lettera dalla tasca. Spiegò che l’aveva scritta in Heungnam ad un seguace che era in prigione a Pyongyang, ma che gli era stata restituita ancora chiusa. Ok Se-hyun, durante una delle sue visita ad Heungnam, gli aveva detto che quella persona aveva rifiutato di accettarla. Moon l’aveva tenuta per almeno tre anni, nella speranza che il suo seguace cambiasse idea e l’accettasse. Pregò e stracciò la lettera(8).

In alcuni paesi Moon usò i pochi soldi che avevano portato con loro, o che avevano mendicato lungo la strada, per acquistare della frutta. A volte, nei piccoli villaggi, delle persone offrivano loro la cena. Una sera in particolare giunsero in una casa vuota. Pulirono una pentola per cuocere del riso, e Kim uscì per cercare della legna da ardere. Ritornò poco dopo dicendo che non era riuscito a trovarne. Moon chiuse gli occhi per un momento, poi disse: «Vai sulla collina, ne troverai un po’ dietro dei cespugli». Kim ritornò con alcune tavole di legno.

«Come faceva a saperlo?» chiese Pak dopo che ebbero mangiato.

«La legna era presso una tomba» rispose Moon; spiegò che glielo aveva detto lo spirito dell’uomo che vi era stato sepolto ed aggiunse: «Se una persona non ha compiuto abbastanza opere buone su questa terra, nel mondo dello spirito è molto più difficile per lei crescere. Gli esseri nel mondo spirituale cercano di crescere attraverso delle persone vive, che hanno il corpo fisico. Molti spiriti nel mondo spirituale cooperano con me e mi aiutano, in questo modo possono crescere spiritualmente».

Dal momento che Pak era ormai in grado di camminare si spostavano rapidamente verso sud, attraverso Andong, Uiseong, e Yongcheon. Una sera giunsero a Koncheon, vicino la storica città di Kyongju. Pak cercò una casa dove fermarsi e vide una chiesa. Si avvicinò ad una grande casa pensando che gli occupanti fossero cristiani, quindi più caritatevoli. Disse al proprietario che erano profughi, e chiesero se potevano usare una stanza per la notte e per cuocere il loro riso.

«Entrate pure» rispose l’uomo. «Sono un Anziano della mia chiesa. Due giorni fa ho sognato che sarebbero giunti tre ospiti importanti. Entrate!». Mostrò loro una stanza, dove c’era del cibo già pronto: «Sarete miei ospiti e vi servirò come si conviene», disse.

Il giorno dopo si diressero a Kyongju, dove giunsero la sera. Trovarono una stanza dove stare ma non c’era né illuminazione elettrica né candele. Kim uscì per comprare delle seppie e ne fece una zuppa nel buio.

Moon propose: «Visto che abbiamo questa buona zuppa, perché non ne porti un po’ al proprietario della casa?». Kim lo fece e ritornò. Dopo che avevano mangiato, il proprietario si presentò nella loro stanza con una candela.

«Che tipo di zuppa è questa?» chiese.

«È zuppa di seppie. Le abbiamo comprate e le abbiamo cotte qui».

«Prima di cuocerle avreste dovuto eliminare l’inchiostro. Guardate». Tenne la candela al di sopra della zuppa così che tutti potessero vedere. Il liquido era nero. Tutti risero. Dopo quattro giorni il padrone di casa, che era un carpentiere, disse loro che avrebbero avuto grosse difficoltà in Pusan, perché la città traboccava di profughi.

«Forse è meglio che voi giovani andiate a Pusan e che il signor Pak resti qui; io mi prenderò cura di lui», suggerì l’uomo(9). Moon approvò, e continuò con il giovane Kim Won-pil fino ad Ulsan, un porto peschereccio sulla costa orientale.

Avevano acquistato dei biglietti per il treno e coprirono gli ultimi cinquanta chilometri fino a Pusan in due ore. Poiché non c’era spazio nelle carrozze passeggeri, viaggiarono aggrappati alla parte frontale della locomotiva, con il calore della caldaia sulla schiena ed un gelido vento invernale sul volto. Giunsero alla stazione Choryung in Pusan, infreddoliti ed affamati, il 27 gennaio 1951.

Note

(1) Stima di Pak. Questo capitolo è basato su interviste concesse da Pak e sui ricordi di Kim Won-pil riportate nel Today’s World, Aprile 1983, pagg. 9-21

(2) Riferito dalla figlia di Lee, Im Nam-sook, in un’intervista concessa all’Autore.

(3) Pak ricostruisce gli avvenimenti in modo diverso. Secondo lui Moon e Kim ritornarono a casa quella stessa sera verso le 21.

(4) Vedi Gregory Henderson, Korea: The Politics of the Vortex, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1968, pagg. 163-4.

(5) Vedi Jon Halliday e Bruce Cumings, Korea: the unknown war, Pantheon Books, New York, 1988, pagg. 132-8.

(6) Intervista concessa all’Autore da Hee-son.

(7) Intervista concessa all’Autore da Im Nam-sook.

(8) Pak ha raccontato questo episodio nel corso di un’intervista, ma non è riuscito a ricordare a chi fosse indirizzata la lettera. L’Autore pensa che fosse Kim Chong-hwa. Pak non ha saputo spiegare perché Moon aveva deciso di strappare la lettera proprio in quel momento.

(9) Pak ricambiò l’ospitalità con la vendita dei tavoli costruiti dal carpentiere. Si ricongiunse al gruppo di Moon nel 1953.

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