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8 - QUARANTA GIORNI IN PYONGYANG

Ci vollero dieci giorni perché Sun-myung Moon ed il suo compagno, Moon Jong-bin, raggiungessero Pyongyang. A causa delle teste rasate furono scambiati, in più occasioni, per soldati nordcoreani in fuga, ma furono in grado di convincere le truppe sudcoreane e gli abitanti dei villaggi lungo la strada che erano appena scappati dalla prigione. In tasca Moon portava quel che gli era rimasto della farina di riso che aveva in prigione(1). La conservava come dono per i suoi seguaci di Pyongyang. I due uomini vissero di frutta e verdura marce che trovavano nei campi lungo la strada. Sette giorni dopo l’uscita dalla prigione compose una canzone di gratitudine a Dio, che chiamò «Benedizione di gloria»(2).

Giunti in Pyongyang, si diressero verso la casa della zia di Sun-myung Moon, dove seppero che alcuni dei suoi cugini si erano già diretti verso la Corea del Sud, ma che la sua famiglia si trovava ancora a Sangsa-ri. Non volevano lasciare le terre di famiglia e speravano che, dopo la guerra, le acque si sarebbero calmate. Moon avrebbe impiegato solo tre giorni di cammino per raggiungere il villaggio; il desiderio di tornare a casa era forte, ma lo ignorò e cominciò a cercare i propri seguaci. Dio gli aveva dato quelle persone ed egli, nei Suoi confronti, si sentiva responsabile di loro.

Questa scelta avrebbe avuto conseguenze dolorose. Sei settimane dopo, quando le forze cinesi si riversarono in massa nella Corea del Nord e cominciarono a respingere verso Sud le forze delle Nazioni Unite, egli si sarebbe unito ai rifugiati diretti a Sud. Non vide mai più né i suoi genitori né il suo amato fratello(3).

Egli sapeva che, dal momento che era giunto senza preavviso, i suoi seguaci nella città si sarebbero sentiti in colpa per non avergli preparato il benvenuto. Infatti più di trent’anni dopo, uno dei suoi seguaci più fedeli, Kim Won-pil, rivelò che si era considerato negligente: si sentiva colpevole per non aver ignorato il proprio rischio personale e non essere andato ad Heungnam ad aspettare che Moon uscisse dalla prigione(4). Moon decise quindi di avvertire i propri seguaci del suo arrivo. Chiese a Moon Jong-bin di riferire ad Ok Se-hyun, che lo aveva visitato in prigione, ed a Kim Won-pil, che alloggiava presso di lei, che egli era giunto in Pyongyang.

Kim giunse immediatamente. Vide che Moon indossava gli stessi abiti che i seguaci gli avevano donato oltre due anni prima durante una visita alla prigione, stracciati e bucati, con del panno cucito all’interno per renderli più caldi. Anche se non era emaciato, appariva malato. Tossiva in continuazione. Andarono alla casa di Ok, nella parte nord della città, vicino al fiume Daedong. Lì, Moon mescolò la farina con l’acqua, e cucinò dei dolci di riso per loro(5).

Molti degli altri che avevano partecipato ai servizi di preghiera di Moon prima che fosse imprigionato, si erano uniti all’esodo dei cristiani e si erano diretti verso Sud. Alcuni però erano ancora in Pyongyang. Chiese quindi a Kim Won-pil ed alla signora Ok di riferire loro che era tornato. Scoprì così che alcuni avevano perso fiducia in Moon dopo la sua incarcerazione. Uno rifiutò di accettare da Kim Won-pil la lettera che Sun-myung gli aveva scritto. Altri, come Cha Sang-soon, erano felici di sapere che fosse salvo, ma non erano in grado di unirsi immediatamente a lui perché avevano altre priorità: ad esempio capire come le loro famiglie avrebbero potuto sopravvivere alla guerra(6).

Kim visitò anche la Chiesa dell’Interno del ventre. Scoprì che gran parte dei membri del gruppo erano stati inviati nei campi di lavoro o erano stati uccisi; alcuni erano ancora in Pyongyang, dove credevano che il loro leader un giorno sarebbe tornato. Uno degli anziani del gruppo andò ad incontrare Moon, ma non vi furono contatti costanti.

Moon mandò Kim Won-pil e Moon Jong-bin a Mangil-ri, un villaggio vicino Daepyong, quattro miglia ad ovest della città, dove viveva Pak Chong-hwa. La moglie dell’ex prigioniero disse che Pak si trovava presso la casa di sua cugina, alla periferia di Pyongyang dove, il 28 ottobre, lo trovarono mentre cercava di riprendersi dalla frattura della caviglia sinistra.

«Sonseng-nim(7) è nella casa della signora Ok in Kyongsang-gol», gli disse Moon Jong-bin; «ci ha mandati qui per incontrarla»(8).

Pak si sistemò su un carrello ed i due seguaci cominciarono a spingerlo. Quando giunsero a Kyongsang-gol, un quartiere elegante su una collina, con sette o otto case con ampi giardini, Sun-myung Moon scese verso di lui per salutarlo.

«Pensavi che saresti morto, vero? – disse a Pak – Ma perché saresti dovuto morire se stavo venendo a cercarti?». Pak scoppiò in lacrime.

«Ho pensato che lei sarebbe stato rilasciato, e so che aveva promesso di contattarmi, ma ho pensato che non lo avrebbe fatto. Pensavo che se non potevo fidarmi di lei, non avrei potuto fidarmi di nessuno al mondo» gli rispose Pak. Mentre spingevano il carrello su per la collina, Moon teneva Pak per mano. Questi spiegò cosa era successo dopo la propria liberazione.

Aveva impiegato quattro giorni per arrivare a Pyongyang; aveva camminato e chiesto passaggi a camion militari. Giunto in città era andato, come Moon gli aveva chiesto, a casa della seguace di quest’ultimo, Kim Chonghwa, ma l’aveva trovata vuota. La donna era già fuggita verso sud. Pak allora era tornato al proprio villaggio, dove sua moglie ed i suoi genitori si erano presi cura dei suoi cinque figli, ed aveva iniziato a lavorare nella fabbrica di gomma di sua cugina.

«Man mano che le forze dell’ONU si avvicinavano, i comunisti si nascondevano. Gruppi di cittadini si organizzavano in ronde per catturarli; purtroppo hanno catturato anche me e mi hanno picchiato. Ecco come mi si è rotta la caviglia. Intanto mi tenevano prigioniero. I soldati dell’ONU, quando sono arrivati, hanno chiesto chi fossero i tre peggiori comunisti, e coloro che mi tenevano prigioniero mi hanno consegnato loro.

Nella mia cella eravamo in più di cento. Ogni sera tre o quattro di noi venivano chiamati per essere interrogati. Non so cosa succedesse loro. Non sono mai tornati, così ho pensato che fossero stati uccisi. Dopo due o tre settimane sono stato chiamato con altre due persone. Ho pensato che fosse giunta la mia ora; in quel momento non ho pensato alla mia famiglia. Ho pensato solo che avrei voluto incontrare Sonseng-nim un’ultima volta. Mi sentivo abbandonato da Dio, come Gesù sulla croce. I soldati dell’ONU, che erano sudcoreani, decisero che dal momento che ero finito nella prigione di Heungnam, ero a posto, e fui rilasciato così come gli altri due. Non volevo tornare a casa subito, perché pensavo che potesse essere ancora pericoloso, così sono andato a casa di mia cugina».

Moon ascoltava attentamente il racconto: «Gli altri due sono stati rilasciati grazie a te. Hanno beneficiato della protezione che Dio dona a chi segue la Sua volontà», rispose.

I quattro uomini restarono nella casa della signora Ok. La donna e le sue due figlie minori, Woo Jong-soon e Woo Jong-ae, cucinavano e lavavano. Gran parte del tempo gli uomini riposavano, riprendendosi lentamente dall’incubo della prigione. Ogni sera tenevano un breve servizio religioso; Moon parlava della vita in prigione, del futuro, e dell’imminente venuta del Regno di Dio. Quando il marito di Ok, che era andato a Seul ed era stato arruolato nell’esercito sudcoreano, ritornò, e gli altri sette loro figli ritornarono con i genitori, gli ospiti se ne andarono. Presero in affitto una stanza in Sosong-ri, nella parte occidentale della città, da una anziana donna la cui famiglia era fuggita a sud.

Il 26 novembre le truppe cinesi attraversarono in forze la frontiera a sostegno dei nordcoreani. Le forze dell’ONU cominciarono a ritirarsi. Le sorti della guerra si stavano di nuovo invertendo. Le persone religiose, i proprietari terrieri, gli anticomunisti e tanti normali cittadini nordcoreani, timorosi dei massicci bombardamenti americani sulla Corea del Nord, fuggirono a Sud. Giunse l’ordine di evacuare Pyongyang. Molti giovani, temendo rappresaglie dai comunisti, o di essere arruolati forzatamente nell’esercito nordcoreano, fuggirono. Lasciarono le loro famiglie pensando di ritornare dopo qualche settimana, quando le ostilità sarebbero cessate.

Il 3 dicembre la cugina di Pak Chong-hwa si presentò alla casa dove abitava. Gli disse che lo avrebbe portato a casa sua e che in seguito avrebbe chiesto al figlio di Pak di organizzare il suo trasporto.

«Aspetterò qui finché la gamba starà meglio e poi verrò a sud» disse Pak a Moon ed ai suoi compagni.

«D’accordo, ci vedremo in Corea del Sud», rispose Moon. La donna portò via Pak su un carrello a due ruote.

Prima di partire, Moon desiderava rintracciare uno degli ultimi membri della sua comunità originale. Kim Won-pil infine lo trovò: era una donna di ottant’anni, malata e vicina alla morte. Kim dovette urlarle nell’orecchio che Moon era ritornato dalla prigione. La donna fu felice della notizia. Quando Kim tornò a casa e raccontò a Moon di averla trovata e di averle parlato, questi si alzò e disse: «Il nostro lavoro a Pyongyang è finito. Adesso tocca a noi partire».

Alle 3 del pomeriggio, la signora Ok era arrivata con la notizia che suo figlio, tenente della polizia militare sudcoreana, era riuscito ad organizzare il trasporto della famiglia con un camion dell’esercito: «Anche voi potete venire, ma vi dovete sbrigare. Ci stanno aspettando al ponte Sudokyo».

Moon, Kim Won-pil, Moon Jong-bin ed Ok arrivarono al ponte un’ora dopo. Il figlio della Ok non fu felice quando vide che sua madre aveva portato con sé Moon. La sua famiglia, che era protestante, si era opposta alla sua frequentazione di Moon fin dall’inizio(9).

«Ma come posso far salire su questo camion la persona che ha distrutto la nostra famiglia? È impossibile!» e gli vietò di salire. La signora Ok era sconvolta ed imbarazzata.

«Non fa niente» intervenne Moon, «andate, ci vedremo a Sud».

La signora Ok salì a bordo del camion, che partì. I tre uomini non avevano altra scelta che raggiungere la Corea del Sud a piedi. Moon fu turbato dall’evento. Se la famiglia cristiana di una delle sue seguaci lo avesse portato in salvo, questo evento avrebbe costituito, dal punto di vista di Dio, un evento simbolico di grande significato. Dopo tutto era stato a causa dell’opposizione dei protestanti che era finito in carcere. Il viaggio sarebbe stato anche più sicuro, perché il figlio della signora Ok era un soldato sudcoreano. Ma ora tre giovani uomini che viaggiavano senza donne e senza bambini avrebbero potuto facilmente essere scambiati per soldati comunisti che cercavano di infiltrarsi.

Raggiunsero la casa della cugina di Pak in Sangsuku-ri. Pak era ancora lì. La cugina lo aiutò a preparare cibo e denaro per il viaggio. Quella notte non riuscirono a dormire a causa del rumore delle esplosioni, perché l’esercito dell’ONU faceva saltare i propri depositi di munizioni prima di ritirarsi dalla città. L’ultima esplosione ruppe i vetri delle finestre. La città rosseggiava per gli incendi causati dalle esplosioni.

Al mattino Moon osservò la città dall’alto della collina, poi chiamò tutti e piangendo disse loro: «Sono venuto per rendere Pyongyang la seconda Gerusalemme, ma mi ha respinto e mandato in prigione. Questa città cadrà nelle mani di Satana, perciò non abbiamo altra scelta che andarcene».

Legarono dei pacchi con riso ed altre cose indispensabili su una bicicletta per le consegne a domicilio. Kim portava uno zaino con altro cibo. Quasi tutti i soldati e la polizia avevano lasciato la città. Gli aerei dell’ONU bombardarono il ponte d’acciaio, il ponte pedonale ed un terzo ponte di fortuna che attraversavano il fiume, per rallentare l’avanzata dei cinesi. Moon ed i seguaci partirono alle 9 del mattino, e dal momento che non c’era modo di attraversare il fiume, si diressero verso il villaggio di Pak ad ovest, spingendo a turno la bicicletta sulla quale aveva preso posto Pak.

Dopo nove ore di cammino giunsero alla casa di Pak in Mangil-ri, dove trovarono circa trenta suoi parenti ed amici, molti dei quali andavano verso Sud, riuniti lì per passare la notte. Moon pregò per il viaggio che li aspettava. I quattro mangiarono nella stanza di Pak e si prepararono per la notte.

«Anche se siamo stanchi, dobbiamo attraversare il fiume stanotte», affermò Moon.

«Ma mio figlio ha una gamba rotta, non può viaggiare così».

«No papà, va bene così, devo andare con loro» rispose Pak. Aveva imparato a fidarsi dell’intuito di Moon grazie alla sua esperienza in prigione. La figlia di Pak si offrì di andare con loro, ma suo padre si oppose e le impose di restare.

«Non si preoccupi, possiamo prenderci cura di lui» disse Moon, che poi si rivolse a Jong-bin. Nelle sue preghiere aveva sentito che avrebbe dovuto formare un gruppo di tre persone e non quattro. Chiese perciò a Jong-bin di restare nella casa di Pak.

«D’accordo, verrò a Sud non appena potrò», rispose Jong-bin.

Pak disse alla propria moglie che sarebbe tornato presto ma, ripensando alle parole dette da Moon quella mattina, nella casa di sua cugina, si chiese quanto tempo sarebbe in verità passato(10).

Moon, Pak e Kim impiegarono solo dieci minuti per raggiungere il fiume. Il cugino di Pak aveva chiesto un passaggio in barca ad un suo amico. Attraversarono il fiume presso Horam-ri, un piccolo villaggio sull’altra riva del fiume, e si diressero verso Sud.

Note

(1) Vedi Kim Won-pil, op. cit., Father’s Course, Pag. 93.

(2) Blessing of Glory è il primo inno che compare nel libro degli inni della Chiesa dell’Unificazione. Moon scrisse, durante il soggiorno in Pyongyang, un altro inno, dal titolo New Song of Inspiration. A questo link si possono leggere i testi ed ascoltare i motivi di vari inni della Chiesa dell’Unificazione: http://www.tparents.org/Library/Unification/Topics/BAFC_Songbook/0-Toc.htm

(3) Moon incontrò due sorelle ed una cognata quando tornò in Corea del Nord nel 1991. Vedi La mia vita per la pace, Steber Edizioni, 2011.

(4) Vedi Kim Won-pil, op. cit., Father’s Course, pag. 94. Vedi anche la sua narrazione su From Pyongyang to Pusan, Today’s World, Aprile 1983.

(5) I dolci di riso vengono consumati tradizionalmente nei giorni di festa ed in occasioni speciali.

(6) Si sa che almeno diciotto dei membri originari del gruppo di Pyongyang si erano diretti verso sud. Sei di loro rimasero seguaci di Moon: Kim In ju, Kim Won-pil, Chong Dal-ok, Cha Sang-soon, Ok Se-hyun and Chi Seung-do. Kim Chong-hwa, la principale seguace di quel periodo, divenne un’avversaria di Moon dopo la liberazione di quest’ultimo dalla prigione. Una volta in Corea del Sud, Moon mandò da lei Pak Chong-hwa ben sette volte per chiederle di incontrarlo, ma alla fine prese atto del suo rifiuto. Ad oggi vive negli Stati Uniti. L’Autore non è stato in grado di rintracciarla.

(7) Come abbiamo già spiegato, questo è un titolo comune che indica rispetto verso la persona che viene definita in questo modo. Le norme coreane di buona educazione esigevano che Moon ricevesse quel titolo. I seguaci spesso lo chiamavano «Sonseng-nim» (nim è un titolo onorifico), definendolo così «insegnante», «Maestro». In ogni caso qualunque traduzione di Sonseng-nim è inesatta in quanto non trasmette il senso dell’accettazione della persona così definita quale persona considerata superiore in saggezza e posizione. In America nei primi anni ci si riferì a Moon come «Master», ed in Italia «il Maestro». Più tardi fu definito, in tutto il mondo, «Reverendo Moon», ma anche questo titolo è fuorviante: ricorda troppo il titolo dei pastori protestanti appartenenti a Chiese cristiane più tradizionali. Sin dagli inizi comunque a questi appellativi ufficiali si è affiancato, all’interno della Chiesa di Unificazione, quello di Abo-nim (Padre).

(8) Questi fatti sono basati su un’intervista concessa all’Autore da Pak Chong-hwa.

(9) Suo marito era Anziano di una Chiesa protestante e, dopo la guerra di Corea, sarebbe diventato un ministro religioso in Pusan.

(10) Pak non rivide più la propria famiglia e si risposò in Corea del Sud. Nel 1989 scrisse al suo vecchio indirizzo e ricevette una risposta dal proprio figlio. Più tardi venne a sapere da un altro rifugiato nella Corea del Sud che sua cugina che abitava a Sangsuku-ri si era unita ai profughi con il marito ed i tre figli, ma che avevano poi deciso di tornare indietro a causa del terribile freddo. Moon Jong-bin non seppe più niente di loro. Si suppone che non siano riusciti a fuggire dalla Corea del Nord.

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