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7 - IL CAMPO DI STERMINIO

Sun-Myung Moon fu condotto in una cella di detenzione in Pyongyang il 10 aprile, in attesa di essere trasferito in un campo di lavoro dove avrebbe scontato la condanna. Memore della sua posizione di ultimo arrivato, raggiunse direttamente il posto vicino al gabinetto e si sedette. Un prigioniero lo guardò per un po’, poi gli disse di sedersi vicino a lui.

«Perché sei in galera?» chiese il prigioniero. Conoscendo un’altra delle regole dei reclusi, quella di evitare di fare troppe domande, Moon si chiese se quell’uomo non fosse un informatore, così di nuovo non rispose.

«Che crimini hai commesso?» insistette il prigioniero.

Moon cominciò così a raccontargli la propria storia come se fosse la storia di una terza persona, dal nome inglese di Lawrence. Gli raccontò che «Lawrence» stava cercando la volontà di Dio ed era finito in prigione.

Il prigioniero ascoltò attentamente, talvolta annuendo, come se ciò che stava ascoltando confermasse qualcosa che già sapeva. Quando Moon giunse alla fine del racconto, l’uomo gli raccontò la sua storia.

Si chiamava Kim Won-dok(1). Era in prigione da molto più tempo di qualsiasi altro prigioniero ed era quindi il capo della cella.

«Sono un maggiore dell’Esercito popolare, provengo dall’Accademia militare giapponese» cominciò a raccontare Kim. Gli spiegò che politicamente non era comunista, ed era l’aiutante di campo del generale nordcoreano Mu Jong, un ufficiale che aveva stretti rapporti con i comunisti cinesi(2). Mentre il generale era in Cina, il servizio di controspionaggio aveva scoperto che il Maggiore Kim aveva dei rapporti con ufficiali sudcoreani. Fu arrestato ed accusato di essere una spia. Giudicato colpevole, fu messo in cella in attesa dell’esecuzione.

Una notte, mentre dormiva, Kim sognò che qualcuno lo chiamava per nome. Per due volte ignorò il richiamo; la terza volta rispose. In sogno, gli apparve un vecchio vestito in abiti tradizionali coreani che lo rassicurò: non sarebbe stato giustiziato.

Il vecchio aggiunse che Kim avrebbe presto incontrato un giovane maestro che veniva dalla Corea del sud. Pochi giorni dopo fu convocato e gli fu comunicato che la pena capitale era stata commutata in cinque anni di detenzione. Il Generale Mu Jong aveva saputo del suo caso e, di ritorno dalla Cina, aveva intercesso in suo favore.

Qualche notte più tardi il vecchio gli apparve di nuovo in sogno, rimproverandolo del suo autocompiacimento ed invitandolo a prepararsi ad incontrare il giovane maestro che veniva dal sud. Gli apparve poi suo padre, anch’egli morto, che lo guidò lungo un corridoio verso alcuni gradini. Alla sommità dei gradini c’era un trono, così fulgido che non riusciva a vedere chi ci fosse seduto sopra.

Quando Moon arrivò nella cella e cominciarono a parlare, Kim intuì che quella era la persona che era destinato ad incontrare. Grazie a quell’esperienza divenne un seguace di Moon(3).

Il 20 maggio del 1948, Sun-myung Moon e Kim Won-dok facevano parte di un gruppo di prigionieri trasferiti in un campo di lavoro vicino al villaggio di Dong-ri, nei pressi della città industriale di Heungnam, sulla costa orientale. I quattrocento abitanti del villaggio non mostrarono grande interesse nei loro confronti, dal momento che tra gli arrivati non c’era nessun abitante del posto(4). Era un’indifferenza che le autorità favorivano. I prigionieri dalle province occidentali venivano detenuti in campi situati nelle province orientali e viceversa, lontano dal sistema di supporto dei clan, ed in luoghi dove era meno probabile che provassero a fuggire(5). Ricevevano così meno visite di quelle che avrebbero avuto se fossero stati imprigionati nelle loro province; i parenti infatti erano scoraggiati dal visitarli anche a motivo del viaggio, lungo e spesso difficile, che avrebbero dovuto affrontare.

Tra i campi di lavoro in funzione all’epoca in Corea del Nord, il peggiore era la miniera di carbone di Aoji, nella provincia di Hamgyong del Nord. Veniva poi Heungnam, e poi Bongung, che era nei pressi, dove le condizioni di vita erano in qualche misura migliori.

Un prigioniero, un impiegato della stazione di Wonsan, arrestato perché distribuiva volantini antigovernativi, aveva sentito prima di giungere ad Heungnam che i condannati che venivano inviati alla miniera di Aoji dovevano pesare almeno cinquanta chili. Nella cella di detenzione non mangiò per venti giorni, limitandosi a bere solo acqua, e raggiunse così il peso di quarantadue chili. Mentre due giovani attivisti furono destinati ad Aoji, egli fu destinato ad Heungnam(6).

Il primo convoglio di novecento prigionieri arrivò al campo di Heungnam il 4 febbraio. Nel primo giorno, mentre si sistemavano nei gelidi edifici dell’ex prigione giapponese, si respirava un’atmosfera ad un tempo chiassosa e piena di apprensione(7). Le guardie li avevano spinti nelle celle(8), ciascuna delle quali conteneva dai venti ai venticinque prigionieri. Vennero distribuite le uniformi che riportavano sulla schiena, in rosso, le lettere coreane KYO, la prima sillaba di Kyodoso, e cioè campo di prigionia.

«Chi l’ha scritto ha una grafia peggiore della mia» scherzò un prigioniero.

«Pensi che il colore rosso stia bene con il blu dell’uniforme?» disse un altro. I delinquenti comuni ridevano e scherzavano, mentre i politici mantenevano un silenzio carico di tensione.

«Silenzio!». Quattro guardie spalancarono la porta della cella ed entrarono: «Abbassate i pantaloni e mettetevi faccia al muro». Le guardie dipinsero le lettere KYO, sempre in rosso, sulle mutande dei prigionieri, che cominciarono di nuovo a sghignazzare.

Dopo l’uscita delle guardie i prigionieri cominciarono a parlare dei loro crimini.

«Io vivo vicino al trentottesimo parallelo», raccontò un diciassettenne. «Un giorno stavo pescando ed ho notato che più scendevo lungo il corso del ruscello, più pesci pescavo. Così ho continuato a seguire il ruscello, ma ad un certo punto sono stato catturato da un poliziotto». Il ragazzo era stato condannato per aver tentato di fuggire in Corea del Sud.

«Allora dobbiamo definirti un elemento reazionario…» scherzò uno dei criminali.

«Io sono qui ma sono innocente!» affermò un ventenne assumendo un’aria ingenua. «Una bella ragazza del mio villaggio mi ha tentato. Così ho fatto l’amore con lei perché tutti e due volevamo farlo. E invece sono stato arrestato per stupro!».

«Facci vedere come è successo» chiese un altro. Il prigioniero si alzò e cominciò a dimenarsi come seguendo un’immaginaria musica da striptease. I prigionieri risero.

Un vecchio confessò: «Io lavoravo nell’edilizia. Ho cercato di sottrarre qualche chiodo e qualche pezzo di legno per riparare la mia casa, ma mi hanno arrestato… Sapete di cosa mi hanno incriminato? Di saccheggio di proprietà del governo».

I racconti continuavano, ma i criminali più incalliti ed i detenuti politici tacevano. Mentre un prigioniero stava raccontando di come era stato arrestato per aver rifiutato di accettare un documento di identità dalle autorità comuniste sulla base di motivi religiosi, una guardia gli urlò di tacere. Il gruppo smise di parlare e pochi minuti dopo tutti dormivano.

Il mattino seguente il suono acuto di una sirena annunciò il nuovo giorno. Le guardie, passando nei corridoi, urlavano: «In piedi! In piedi!».

Giunse la colazione, in rumorose tazze di metallo. I prigionieri guardarono la zuppa poco invitante e capirono quanto erano affamati. Anche i criminali comuni erano tranquilli. Trenta minuti dopo erano tutti riuniti nel cortile per l’adunata.

Il comandante, un capitano dell’esercito, tenne loro un breve discorso: «Questo è il campo di lavoro speciale di Heungnam. Scopo di questo campo è fornire forza lavoro alla Fabbrica Coreana di Concimi Azotati». Delle guardie armate divisero i prigionieri in squadre di lavoro di dieci persone. Dieci squadre formavano un plotone di lavoro.

Iniziò una marcia di circa quattro chilometri per raggiungere la fabbrica. La zona industriale di Heungnam sembrava estendersi per chilometri e chilometri. In effetti era il maggior complesso per la produzione di prodotti chimici e metalli leggeri in tutta l’Asia dell’est. Le tre fabbriche principali erano la Fabbrica Coreana di Esplosivi, la Fabbrica Coreana di Concimi Azotati e la Fabbrica di Prodotti Chimici Bogun. Varie altre fabbriche più piccole producevano pellami, proiettili, granate ed altri prodotti.

Quando i prigionieri raggiunsero la fabbrica di fertilizzante, la trovarono in piena attività. Del fumo si alzava dalle ciminiere, vari treni percorrevano avanti ed indietro i binari. Nel corso dell’occupazione giapponese, la fabbrica – fondata nel 1927 – era diventata la seconda produttrice di concimi chimici al mondo. Il gruppo di carcerati fu condotto verso una collinetta di solfato di ammonio che si era solidificato; il prodotto doveva quindi essere disgregato ed immesso in sacchi da quaranta chili. Quel lavoro li avrebbe assorbiti per oltre due anni. Ciascuna squadra di dieci persone doveva riempire settecento sacchi nel corso della giornata lavorativa di otto ore. A sera i prigionieri vennero perquisiti uno per uno e spinti nelle loro baracche. Arrivò la cena: una manciata di granaglie bollite e la stessa zuppa salata del mattino. Guardandosi le mani, notarono che la pelle della punta delle dita era erosa a causa del contatto con il fertilizzante.

La giornata non era finita. Alle 19,30 i prigionieri ricevettero l’ordine di leggere collettivamente il giornale in ogni cella. Non sapevano cosa volesse dire. Poco dopo, una guardia distribuì il Rodong Shinmun, il quotidiano del Partito Coreano dei Lavoratori. Un prigioniero che sapeva leggere iniziò la lettura dell’editoriale a voce alta. L’articolo doveva essere discusso, ma tutti tacevano, nessuno sapeva cosa dire.

«Dovete criticare il vostro rendimento sul lavoro, e confessare i crimini per i quali siete stati mandati qui», disse una guardia. Discussero nella depressione più profonda, con la mente rivolta alla fatica ed alla fame. Qualche tempo dopo suonò la sirena. Una guardia passò di baracca a baracca percuotendo i muri con un bastone urlando «Controllo!». In ogni baracca verificò che nessuno fosse fuggito.

«A dormire!» ordinò. I prigionieri, sdraiati alternativamente di testa e di piedi su ruvidi pagliericci, con una coperta per quattro persone, caddero in un profondo sonno. La mattina dopo la sirena suonò di nuovo, giunse la stessa zuppa annacquata per la colazione, che fu seguita dall’adunata.

«Qualche prigioniero desidera dichiararsi malato?» urlò il comandante. Metà del gruppo fece un passo avanti. Le guardie si avvicinarono.

«Dove senti dolore?» chiese una guardia ad un vecchio.

«Qui. La mia schiena mi fa male. Non penso che riuscirò a lavorare oggi». La guardia lo colpì con durezza sulla schiena; dopo pochi colpi il prigioniero cadde a terra.

«Ecco quanto male dovete stare per andare in infermeria», urlò la guardia. «Se qualcuno sta davvero male faccia un passo avanti». I prigionieri rientrarono nei ranghi. Raggiunsero così la fabbrica, dove venne detto loro che l’obiettivo giornaliero era stato portato a milletrecento sacchi(9). Se una squadra non riusciva a raggiungere l’obiettivo giornaliero, dovevano restare sul luogo a completarlo, saltando la cena se necessario(10).

Ricordando quel giorno, Kim In-ho scrisse: «Da quella data iniziò il nostro miserabile lavoro forzato. Il messaggio sembrava che fosse: se non ce la fai, muori pure». Lavoravano nel gelido inverno, con i corpi denutriti che lottavano contro il freddo. Con il primo calore primaverile i corpi si rilassarono, ed i prigionieri più deboli caddero malati.

Quando Sun-myung Moon e Kim Won-dok giunsero a Hungnam, nel maggio del 1948, l’aspetto del campo era terribile. Il luogo appariva come un campo di sterminio. I prigionieri, il cui numero era ormai di millecinquecento, vivevano stipati in quaranta per ogni cella, erano emaciati ed esausti. Ogni giorno alcuni tra loro morivano e ne giungevano altri per sostituirli.

All’inizio, solo circa il dieci per cento dei detenuti era costituito da prigionieri politici, ed un altro dieci per cento da soldati o ufficiali condannati per mancato adempimento del loro dovere. Il resto era costituito da criminali. Il numero dei prigionieri politici però era destinato ad aumentare in modo molto rapido. Venivano tenuti in baracche separate ed in squadre di lavoro separate; la definizione di prigioniero politico, però, era molto ampia. Quasi ogni reato commesso nelle vicinanze del trentottesimo parallelo, ad esempio il tentativo di vendere un bue oltre la frontiera, era considerato politico. Uno di questi prigionieri, un comandante di brigata dell’Esercito del Popolo, era stato condannato a cinque anni per aver usato uno striscione con scritto «Lunga vita a Kim Il-Sung!» per le esercitazioni di tiro. Spiegò ai compagni di prigionia il suo comportamento con queste parole: «…non c’era null’altro a cui sparare!».

I veri oppositori del regime comunista dovevano selezionare molto accuratamente le persone con le quali confidarsi. I prigionieri che consideravano gli anticomunisti come persone davvero pericolose, a volte informavano le guardie delle conversazioni che avvenivano nelle celle.

Moon alloggiava nella baracca due, cella cinque. Un cartello fuori della costruzione che elencava il numero di ciascun occupante, il crimine commesso e la durata della pena, definiva gli abitanti della cella come prigionieri politici. Il suo numero era 596. Il fatto che la pronuncia di quel numero in coreano avesse un suono simile alle parole «(persona che) soffre ingiustamente» contribuiva a rafforzarlo(11). Era Dio, si diceva, che gli aveva dato quel numero.

Osservando i compagni di cella, si accorse che alcuni avevano già abbandonato la lotta, ed intuì che presto sarebbero morti. Se delle persone sane potevano morire dopo pochi mesi, come poteva lui sostenere una condanna a cinque anni? Capì che anche lui era stato mandato lì a morire. Era inutile cercare di fuggire, ed altrettanto futile cercare di mantenere la propria dignità sfidando apertamente le guardie. I prigionieri che assumevano atteggiamenti del genere venivano subito isolati e puniti duramente. Era determinato a sopravvivere e capì che c’era solo un modo per farlo. La sua sfida sarebbe stata spirituale. Decise di lottare come se la salvezza di tutti gli uomini dipendesse da lui; come se l’unica speranza di Dio per il mondo dipendesse dalla sua vittoria. La battaglia era spirituale; si sentiva chiamato a sconfiggere Satana, a sconfiggere le forze spirituali che portavano gli uomini verso il male. Le sue armi sarebbero state la preghiera, la disciplina e l’amore. Decise di mantenere un atteggiamento d’amore nei confronti di Dio, dei suoi compagni e delle guardie, indipendentemente da quanto male lo trattassero. Quel tipo di forza spirituale, che lo aveva sostenuto nel corso della precedente esperienza carceraria, sarebbe stata messa di nuovo in pratica in Heungnam. Era consapevole del fatto che se il suo amore per Dio si fosse affievolito, si sarebbe impadronita di lui la stessa passione che consumava gran parte dei suoi compagni: la pura e semplice lotta disperata per la sopravvivenza.

La sfida immediata che dovette gestire fu quella posta dalla dieta da fame alla quale era sottoposto; doveva evitare di cadere preda dell’ossessione per il cibo che colpiva quasi tutti i prigionieri. Decise di donare ad un’altra persona la metà dei suoi trecento grammi di granaglie, riducendo così la propria razione al livello di quella dei ricoverati in infermeria. Fece ciò ad ogni pasto per due settimane. Dopo di ciò cominciò a mangiare di nuovo l’intera razione, considerando il «raddoppio» della quantità di cibo come un dono da Dio. Studiò in modo spassionato la reazione della mente e del corpo per capire se poteva desiderare l’amore di Dio più di quanto desiderasse il cibo. Si concentrò più sul confortare Dio che sul proprio desiderio di nutrimento(12).

Ho capito chiaramente quanto Dio mi amava, e che sapeva quanto soffrivo. Dal momento che conosceva la mia situazione, non potevo chiederGli di eliminare o di alleggerire la mia sofferenza. Dio può salvare una persona dalle circostanze difficili in cui si trova solo se ci sono le giuste condizioni. Quindi, se avessi pregato Dio di allontanare da me quella sofferenza, avrei aggiunto dolore al suo dolore. Non pregai (quindi) per questo. Pregai così: «Dio, non ti preoccupare per me». Non dissi: «Aiutami, Padre». Di conseguenza, mai ed in nessuna circostanza ho tradito o rinnegato Dio, ma ho solo avuto fede in lui e non gli ho mai dato delle preoccupazioni. Mi studiavo per cercare di capire se riuscivo ad essere grato in tali circostanze e se potevo continuare a sviluppare il grande ideale di realizzare il Suo regno sulla terra. In tali circostanze si tende a desiderare cose terrene, una vita più facile. Questi desideri penetravano anche nella mia mente. Anche se avevo una famiglia che mi amava e sulla quale potevo contare, ho sempre ricercato cose più elevate. Il mio unico desiderio era di vincere la battaglia tra bene e male. Per raggiungere quella vittoria, ero pronto a pagare il prezzo necessario. Sapevo che il segreto per vincere sul male era lasciare che il male colpisse per primo. Poi avrei potuto vincere(13).

Decise di gettarsi anima e corpo nel lavoro, in modo che questo diventasse un obiettivo da realizzare. Si adattò alla routine della prigione: sveglia con sirena alle 6 del mattino; colazione alle 7; alle 7,30 suonava una campanella a mano, le guardie aprivano la cella e gli uomini si allineavano fuori(14). Il comandante saliva su una pedana ed urlava loro le istruzioni da seguire. Niente fumo, niente fuga. Nel corso dei primi mesi due prigionieri cercarono di fuggire. I loro corpi furono esposti come monito. Altri quattro, che furono catturati, ricevettero come punizione un anno di pena supplementare. Le duecentocinquanta guardie del campo sorvegliavano costantemente i prigionieri. Ogni mattina i millecinquecento detenuti raggiungevano la fabbrica suddivisi in due colonne, formate da righe di quattro uomini, le mani legate e gli occhi fissi a terra per prevenire i pensieri di fuga. Un uomo che guardava in alto fu picchiato.

Arrivavano alla fabbrica alle otto. Il leader dei prigionieri si incontrava per dieci minuti con i quindici capisquadra, comunicava loro gli incarichi del giorno ed il lavoro aveva inizio. Ad ogni squadra era assegnato un lavoratore civile che aveva il compito di verificare il peso dei sacchi, ma per il resto i prigionieri lavoravano e mangiavano separati dai normali lavoratori della fabbrica.

A mezzogiorno la sirena suonava per il pranzo. La sala mensa era fornita di lunghi tavoli e di panche di legno. Ad ogni pasto venivano servite le solite granaglie e la solita zuppa. Guardie armate sorvegliavano le uscite e controllavano che gli uomini non si guardassero tra loro. Se un uomo affamato che ha finito il proprio cibo guarda un altro uomo che mangia, inizia a masticare a vuoto, un fenomeno inconscio che velocizza i processi degenerativi dovuti alla fame(15); tuttavia molti prigionieri guardavano coloro che non avevano finito di mangiare. A volte, durante il pasto, un prigioniero denutrito moriva, allora altri prigionieri si lanciavano su di lui per impadronirsi del cibo che ancora gli restava in bocca. Dopo pranzo, c’era un riposo di trenta minuti. Le guardie imponevano ai prigionieri di cantare o di recitare. Quelli che venivano chiamati non riuscivano mai a trovare il coraggio di esibirsi in modo accettabile. A Moon ciò non fu mai richiesto.

Al pomeriggio il lavoro iniziava alle 13,00 e durava fino alle 17,00. Alle squadre che non erano riuscite a rispettare la quota non era più richiesto di restare e realizzarla, ma dovevano recuperare la quota mancante il giorno dopo. I prigionieri si mettevano in formazione per tornare alla prigione ed al cancello il leader dei prigionieri ed una guardia li contavano. Un ufficiale medico e tre prigionieri, medici anch’essi, prestavano servizio all’infermeria, che era sempre piena. Quasi tutti coloro che morivano, però, morivano direttamente nelle baracche.

Il lavoro di Moon consisteva nel riempire i sacchi con il fertilizzante e nel trasportarli alle bilance. Affrontava il lavoro con un’energia che incuriosiva gli altri.

«Signor Moon, perché lavora così duramente?» chiese Kim In-ho, un guerrigliero anticomunista di diciannove anni con cui condivideva la cella.

«Se lavoro molto, vuol dire che c’è meno lavoro per gli altri, giusto?» replicò Moon.

Kim aveva notato che Moon non si gettava mai esausto sul materasso alla fine della giornata come tutti gli altri, ma si sedeva con la schiena diritta con un’espressione calma sul viso, e si chiedeva perché. Era curioso anche di capire come mai dopo il lavoro Moon, diversamente dagli altri prigionieri, non usava mai il corso d’acqua che usciva dalla fabbrica per pulirsi della sporcizia e del fertilizzante.

Una mattina Kim si svegliò verso le cinque del mattino per andare a gabinetto. Appena sveglio, vide Moon in un angolo della cella che pregava. Sentendo qualcuno muoversi, Moon aprì gli occhi.

«Signor Kim, oggi si è svegliato presto» gli disse Moon. Parlavano sottovoce per non farsi sentire dalle guardie(16).

«Si alza sempre così presto? Non si sente stanco?» chiese Kim.

«Sono abituato così. Non mi sento bene se dormo troppo». Moon si tolse la camicia. Imbevve un piccolo asciugamano dell’avanzo della sua acqua da bere e cominciò a lavarsi.

«Non sente freddo?» Chiese Kim. «Se prende un raffreddore…»

«Non mi lavo nell’acqua della fabbrica. Mi lavo con questa», spiegò Moon. Dopo essersi lavato pregò di nuovo.

Una volta fu scoperto mentre faceva ginnastica al mattino presto, mentre avrebbe dovuto dormire, e fu messo in isolamento per una settimana. Dopo quel periodo continuò a fare ginnastica, ma fingeva di dormire quando le guardie passavano. Con questo tipo di disciplina Moon fu in grado di evitare di cadere nella disperazione. Ogni giorno si svegliava aspettandosi che succedesse qualcosa di nuovo. Restava in attesa dei piccoli avvenimenti e degli scambi di parole che rendevano ogni giorno diverso dagli altri. In questo modo continuava a nutrire la sua visione di un futuro mondo di pace nella miseria del campo di lavoro. Nel lungo percorso verso la fabbrica, che faceva ogni giorno, diceva a se stesso che era in marcia verso un mondo ideale.

Un giorno un nuovo prigioniero, il numero 919, si unì alla sua squadra. Dal momento che non era abituato al lavoro manuale, il leader della squadra(17) dette al 919 il compito di tenere aperti i sacchi mentre Moon e gli altri prigionieri li riempivano di fertilizzante. Dal momento che non riusciva a svolgere nemmeno questo compito in modo adeguato, Kim lo mise a legare i sacchi, il lavoro più semplice da svolgere, ma aveva difficoltà anche in quello. Il prigioniero 919, il cui nome era Pak, era disorientato dalla fame e rallentava tutta la squadra; per questo i suoi compagni cominciarono a temere di non riuscire a raggiungere la quota assegnata(18). Nei giorni seguenti Moon si prese cura di lui. Dopo aver riempito ciascun sacco, Moon lo aiutava pazientemente a legarlo, finché Pak stesso riuscì a farlo in modo accettabile. Quell’uomo si commosse per la cortesia di Moon e sentì che poteva fidarsi di lui.

Pak aveva comprato dell’olio di fegato di merluzzo e lo condivideva con alcuni dei compagni di cella tra i più emaciati. Un giorno però Moon gli disse: «Non aiuti tutti. Potrebbe aiutare Satana».

«Cosa vuole dire?»

«Alcuni dei prigionieri che sono qui sono innocenti e devono essere aiutati. Ma altri sono qui perché stanno pagando per i crimini che hanno commesso. Se interferisce con il loro indennizzo in realtà non li sta aiutando. Chieda a me chi deve aiutare»

Qualche settimana dopo Pak tornò a parlargli: «Il comandante del campo mi ha chiesto di essere il leader dei prigionieri. Cosa ne pensa? Io gli ho detto di darmi due giorni di tempo per decidere»(19). Il compito del leader di tutti i prigionieri consisteva nel controllare l’operato dei quindici leader dei gruppi, che non lavoravano(20). Il precedente leader aveva finito di scontare la sua pena e Pak, in quanto ufficiale dell’esercito, era rispettato dalle guardie e considerato una scelta accettabile quale nuovo leader.

«C’è un significato speciale in questa richiesta. La accetti», gli rispose Moon.

Il giorno dopo Pak fu presentato dal comandante all’adunata del mattino: «Il prigioniero 919 è il vostro nuovo leader. Dovete fare quello che vi dice di fare».

Quella notte Pak fece un sogno. Un vecchio vestito con il tradizionale abito bianco coreano lo scosse e gli disse: «Sai chi è quell’uomo che ti ha aiutato nel lavoro?». Pak rispose che non lo sapeva. «Quel giovane è la persona che aspetti fin da quando eri bambino. È il Messia. Gesù ha detto che sarebbe tornato come l’avevano visto andare. Ecco, è lui il Cristo che torna» aggiunse il vecchio(21).

Pak, che aveva frequentato una scuola cristiana ed era stato uno degli anziani in una chiesa di Pyongyang, fu profondamente scosso dal sogno. Non riuscì a dormire per due notti, si faceva tante domande sull’esperienza che aveva avuto. Se il sogno era vero, e quell’uomo era davvero il signore del Secondo Avvento, cosa faceva in quella prigione?

Due giorni dopo si sedette in terra dietro a Moon nel corso dell’adunata del mattino. Moon si voltò e gli chiese: «Lei ha fatto un sogno due notti fa, vero?». Pak rimase senza parole.

Cominciò a lavorare di nuovo con la squadra di Moon per osservarlo meglio; ad un certo punto organizzò il lavoro in modo che Moon potesse avere un po’ di tempo libero perché potessero incontrarsi e parlare. Una volta che si trovarono da soli, i due si presentarono formalmente per la prima volta e raccontarono a vicenda la propria vita.

«Mi chiamo Pak Chong-hwa, vengo dalla Provincia del Pyong-an del Sud. Ero nell’esercito e sono stato condannato per abuso di autorità e per negligenza».

«Io vengo da Jeongju, nella Provincia del Pyong-an del Nord. Sono Moon Yong-myung. Il mio numero di prigioniero è 596. Stavo svolgendo opera di evangelizzazione in Corea del Sud, ma Dio mi ha rivelato che sarei dovuto tornare il Corea del Nord. Sono stato arrestato per aver disturbato l’ordine della società».

Pak, trentatré anni, tenente colonnello della polizia militare nordcoreana, era stato condannato perché un suo ufficiale aveva aiutato dei mercanti sudcoreani a trasportare merci di contrabbando attraverso la frontiera. Inoltre era stato accusato di incompetenza e di disobbedienza agli ordini, poiché aveva permesso alla sua unità di polizia di ingaggiare delle scaramucce lungo la frontiera contro le forze sudcoreane senza permesso. Confessò che, dopo alcuni giorni nel campo, che la fame lo stava facendo impazzire. A pranzo i prigionieri ricevevano, con le granaglie e la zuppa, anche un rafano. Se vedeva qualcuno con un rafano più grande del suo, aveva bisogno di tutto il resto della giornata per superare l’angoscia che provava. Ora, in qualità di leader, i prigionieri gli avrebbero dato del cibo portato dai loro parenti in cambio di favori.

Ad un certo punto iniziarono a parlare della Bibbia.

«Se ha studiato la Bibbia, certamente sa chi era Giovanni il Battista», gli chiese Moon.

«Certo. Era un grande profeta. Si vestiva di abiti fatti con pelo di cammello, faceva digiuni, mangiava locuste e miele selvatico».

«Ha fatto tutte queste cose ma non ha realizzato la propria responsabilità; ecco perché Dio non ha potuto impedire che il re Erode lo facesse decapitare» ribatté Moon.

«Non è vero» ribatté Pak. «Era un grande uomo di Dio. È scritto nella Bibbia».

«Il Battista sarebbe dovuto diventare il primo dei seguaci di Gesù ed avrebbe dovuto testimoniare di lui» rispose Moon.

«Ma Giovanni portò testimonianza a Gesù. Nel Vangelo si dice che, quando battezzò Gesù, discese la colomba…».

«Quella fu solo un’esperienza spirituale, ma poi tutto continuò come prima».

«E perché non seguì Gesù?». Continuarono a parlare a lungo, con Pak che faceva domande a getto continuo volte a smentire l’affermazione di Moon che Giovanni il Battista non aveva veramente seguito Gesù, nonostante ne avesse chiaramente riconosciuto il ruolo messianico. Moon argomentava in modo chiaro e sereno, poiché non desiderava irritare Pak o dare il via ad un litigio. Il suo desiderio era che Pak intuisse che gli stava parlando non della storia, ma di quella che secondo lui sarebbe dovuta essere la missione dello stesso Pak.

«Forse la cosa migliore è che lei preghi su questo tema e poi mi dica cosa sente in proposito» gli disse Moon.

Pak era disturbato dal loro disaccordo. Il colloquio con Moon lo aveva infastidito così tanto che non sentiva nemmeno più il desiderio di cibo, e non riuscì a dormire bene per tre notti. Pregò e sentì che il proprio spirito era confuso perché non aveva creduto al vecchio che gli era apparso in sogno. Quando vide Moon gli chiese scusa per non averlo ascoltato fino in fondo, e gli disse: «Adesso credo in lei».

Moon gli spiegò alcune delle sue esperienze personali con Gesù, e cercò di aiutare Pak ad esaminare la situazione di Gesù in modo realistico; lo aiutò cioè a capire cosa era avvenuto realmente, a non fermarsi all’interpretazione costruita nel corso di duemila anni di culto e di dottrina cristiani.

«È facile oggi credere in Gesù, ma mentre era in vita era quasi impossibile per le persone comuni capirlo ed accettarlo» gli disse Moon. «Così Dio preparò persone come Giovanni il Battista che testimoniassero di lui ed aiutassero gli altri a riconoscere Gesù come Messia. Era però difficile per Giovanni credere a ciò che Dio gli aveva mostrato su Gesù. Per Giovanni Gesù era solo il figlio illegittimo di Maria. Se Gesù fosse nato in un palazzo, pensi a quanto sarebbe stato più facile per il popolo accettarlo… invece era più o meno un emarginato, anche nella sua famiglia, a causa delle particolari circostanze della sua nascita. Per Gesù una tale situazione ha costituito un peso terribile da sostenere; e tutto questo è avvenuto a causa dell’atteggiamento di sua madre».

«Cosa?» disse Pak.

«Non pensa che se l’infanzia di Gesù fosse stata felice, e se la sua famiglia avesse riconosciuto che aveva qualcosa di speciale, il Vangelo lo avrebbe riportato? I suoi primi anni sono avvolti dal mistero perché sono stati infelici. La sua famiglia lo ha trascurato».

«Non posso crederci…»

«Perché pensa che Gesù abbia detto, rivolto a sua madre: ‘Donna, cosa c’è tra me e te?’ quando Maria gli parlò alle nozze di Cana?(22) Voleva dire qualcosa. Maria aveva adempiuto ad un ruolo provvidenziale dando nascita a Gesù, ma non aveva…»

«Ma cosa sta dicendo?» protestò Pak allontanandosi da Moon, furioso per la demolizione che questi stava facendo della sua fede. Era così sconvolto che quella notte ancora non riuscì a dormire. La sua anima era tormentata, ed il corpo ne subiva le conseguenze. Il malessere durò una settimana, ma alla fine si convinse che il proprio atteggiamento era sbagliato.

«Mi dispiace» disse a Moon.

Moon gli sorrise. «Pensavo di tormentarla per un’altra decina di giorni, ma adesso che si è pentito va bene!»(23).

In un’altra occasione, Pak si adirò contro Moon quando questi affermò che Gesù era stato abbandonato dai suoi discepoli, e che Giuda lo aveva tradito per gelosia(24). Quella notte il vecchio gli apparve di nuovo in sogno e lo rimproverò: «Da adesso in poi seguilo! Non dubitare più di lui»(25).

Pak cominciò a chiamare Moon Sonseng-nim (Maestro), e Moon cominciò a chiamarlo per nome, Chong-hwa. Poiché Pak era il leader dei prigionieri ed aveva sette anni più di Moon, questo comportamento era inusuale nel normale contesto dei rapporti gerarchici nella società coreana. Può essere comparato, in un contesto occidentale, all’inversione del rapporto tra studente ed insegnante.

Pak offrì a Moon di assegnargli il lavoro più facile nella squadra di lavoro, che consisteva nel legare i sacchi, ma Moon rifiutò.

«Se faccio il lavoro più facile, Satana può minare la nostra opera di costruzione del regno di Dio(26). Dobbiamo iniziare con il lavoro più difficile».

«Beh, quello più difficile è riempire i sacchi», rispose Pak.

«Allora da oggi in poi farò quello», ribatté Moon.

Il 15 agosto, terzo anniversario della fine del dominio coloniale giapponese, Moon ricevette un premio quale miglior lavoratore nella prigione. Ci fu una cerimonia di fronte a tutti i reclusi, ed il comandante gli porse un certificato nel quale era scritto: «Il prigioniero 596 ha lavorato duramente ed ha un carattere retto». I prigionieri applaudirono meccanicamente. Moon sentì che quel premio significava che Satana stesso aveva riconosciuto la sua determinazione a vincere. Il premio veniva concesso due volte all’anno, il 1 gennaio ed il 15 agosto. Egli vinse i successivi due riconoscimenti(27).

«Vedi, nonostante il terribile lavoro che facciamo, che ci fa sanguinare le dita» disse un giorno Moon a Pak con grande serietà «e nonostante siano passati dei mesi, questa collina di fertilizzante sembra sempre della stessa grandezza».

«Già, lo vedo».

«Un giorno, tutto questo lavoro potrebbe essere fatto da un uomo che controlla una macchina. Un solo uomo potrà fare in tre ore quanto noi facciamo in tutta una giornata!»

«Già, può darsi – rispose Pak – ma siamo in una prigione, e nessuno ci porterà una macchina del genere».

«Ma pensa al futuro. Dove sarai tra trent’anni? Sarai qui? Naturalmente no. Un giorno tutto il mondo sarà unito. Il mondo sarà il Regno di Dio e verrà unificato dall’amore di Dio. Non vi saranno barriere tra le razze, le nazioni, le ideologie. Parleremo la stessa lingua. Le persone lavoreranno non per sopravvivere, ma perché altrimenti si annoierebbero se non lavorassero, e lo faranno forse per tre ore al giorno. Tutto sarà automatizzato. Questo è il Regno di Dio. Non possiamo però solo immaginarlo, dobbiamo lavorare per costruirlo. Dobbiamo promettere a Dio che perseguiremo quest’obiettivo. Mi segui?»(28).

«Sì». Pak lo guardò; aveva preso delle note su pezzetti di carta(29). Era ispirato, più che dalla visione in sé, dal fatto che un uomo potesse avere una tale visione in quelle terribili circostanze.

Moon chiese a Pak di trovare altre dodici persone che potessero condividerla, che potessero essere come gli apostoli di Gesù. Pak informò di questo ideale sette dei quindici leader dei gruppi, e parlò loro di Moon. Quest’ultimo a sua volta testimoniò ad altri cinque prigionieri. La maggioranza di quei dodici era attratta dal carattere di Moon piuttosto che dal tipo di esperienza spirituale di Pak e di Kim Won-dok(30).

Di questi prigionieri, quello che forse aveva capito più profondamente Moon era Kim Jin-soo, che condivideva la sua cella ed era uno dei sei pastori cristiani che allora si trovavano in prigione(31). Kim, 48 anni, era già ben conosciuto per le sue attività durante il dominio giapponese: era stato allora imprigionato varie volte dalle autorità coloniali. Al tempo del suo arresto, era il presidente dell’Associazione Presbiteriana delle Cinque Province. Sua moglie andava a trovarlo ogni mese. Si era trasferita vicino al campo, ed ogni giorno lo osservava da una collina mentre camminava verso la fabbrica. La donna aveva frequentato la Scuola Soongshil in Pyongyang, la stessa di Pak. Saltuariamente il comandante, per rispetto nei suoi confronti, lo chiamava nel suo ufficio per chiacchierare con lui e per dargli qualche ciotola di riso. Il pastore portava il cibo nella cella, pregava e lo distribuiva ai compagni, rifiutando di tenerne anche una minima quantità per se stesso.

Una volta in cui Pak era in un profondo conflitto interiore a causa dell’insegnamento di Moon, Kim gli disse: «Anche se lei è il leader, Moon ha una teologia straordinaria e delle profonde esperienze spirituali, quindi deve ascoltarlo». Contro il consiglio di Moon, Kim accettò di essere trasferito al vicino campo di Bongung con Kim Won-dok, dove fu giustiziato nel corso di un massacro di prigionieri, subito dopo l’inizio della guerra di Corea.

Tra gli altri seguaci di Moon vi era Moon Jong-bin, un membro del Partito comunista e dirigente di contea di circa trent’anni, condannato per negligenza nello svolgimento delle sue mansioni, e Ju Heung-shik, uno dei leader delle squadre di lavoro. Ju era stato trasferito ad Heungnam dalla miniera di Aoji, la prigione vicino alla frontiera sovietica. Diceva di essere stato un rappresentante provinciale di una organizzazione nazionalista, la Bekeuidan, o «Gruppo delle persone in bianco», nome che si riferiva al colore bianco degli abiti tradizionalmente indossati in Corea. Anche se affermava di non essere stato implicato nel fatto, era stato arrestato dopo che un membro della sua organizzazione aveva tentato di far saltare un treno sul ponte sul fiume Daedong il 27 aprile 1947(32). L’obiettivo era il Colonnello Generale Terenti F. Shtykov, il rappresentante sovietico della Commissione Congiunta USA-Unione Sovietica, formata per supervisionare l’unificazione coreana ed il proposto protettorato di cinque anni da parte delle quattro potenze. Shtykov era giunto in Corea come comandante del 28° Gruppo Militare Sovietico. Il leader comunista Kim Il-sung era stato ai suoi ordini con il grado di maggiore(33). Sembra però che i guerriglieri avessero fatto saltare il treno sbagliato. Ju giunse ad Heungnam portando con sé l’avvincente racconto di un tesoro nascosto. Un prigioniero moribondo nella prigione di Aoji gli avrebbe narrato di essere tornato in Corea dall’India con gioielli e monete, che aveva poi nascosto vicino al cimitero della città sudcoreana di Yosu. Ju passò la mappa del tesoro a Pak. Che il tesoro esistesse o meno non fu mai provato, ma la mappa servì comunque a far ottenere a Ju la posizione di leader, esentato dal lavoro, di una squadra di prigionieri(34).

Uno degli altri prigionieri che sembra sia stato un seguace di Moon, era Chong Choon-shik, un uomo d’affari condannato perché «reazionario», che tempo dopo fu ucciso. Il destino degli altri rimane sconosciuto. I loro nomi sono: Kim Nam-seon, leader della squadra di lavoro di Moon e funzionario governativo, incarcerato per negligenza sul dovere; Kim Yeon-ok, anch’egli funzionario governativo, accusato di essere un reazionario; Cho Eung-soo e Kang Shim-heun, entrambi membri dell’Associazione Democratica Giovanile, a carattere antigovernativo; Pak Myeong-hwan, che aveva un’attività commerciale legata alla pesca, accusato di essere un reazionario; e Kim Seung-tae, un pescatore, accusato di frode.

Intanto, nel corso del 1948, la lotta tra la destra e la sinistra per il controllo della Corea si era intensificata. La Corea del Nord aveva inviato istruzioni ai propri agenti nel Sud di bloccare le elezioni generali, controllate dalle Nazioni Unite, previste per il 10 maggio. Le elezioni si svolsero separatamente nel Sud, ad eccezione dell’Isola di Cheju, dove si verificò una rivolta popolare guidata dai comunisti. Il 15 agosto il Governo Militare Americano, la cui opera era stata caratterizzata da ignoranza ed improvvisazione, passò il potere a Syngman Rhee, il primo presidente della costituenda Repubblica di Corea. Tre settimane dopo, il 9 settembre, la Corea del Nord fu formalmente costituita in Repubblica Democratica Popolare della Corea, il cui premier era Kim Il-sung. Per celebrare l’evento, la durata delle condanne fu quasi dimezzata; a motivo di ciò, la condanna di Moon a cinque anni fu ridotta a tre anni.

Quando, alla fine della giornata di lavoro, i prigionieri erano ritornati al campo, venivano chiamati con l’altoparlante i numeri di coloro che avevano dei visitatori. I prigionieri avevano diritto ad una visita al mese. I chiamati andavano nella sala visite, dove potevano incontrare per dieci minuti la persona che era andata a trovarli. Ad un lungo tavolo si svolgevano da tre a cinque di questi incontri contemporaneamente, sotto gli occhi di una guardia. Ci si sedeva, si parlava, si ricevevano vestiti e la cosa più importante: la farina di riso. Ciascun prigioniero aveva diritto ad un contenitore di circa quindici litri di farina di riso. Senza questa integrazione della dieta della prigione la morte era certa. I prigionieri più poveri, circa un terzo del totale, non ricevevano questa farina. I criminali comuni che la ricevevano la tenevano per sé. I prigionieri politici invece, che ricevevano in genere più visite, condividevano quanto ricevevano. In genere, almeno una persona ogni sera in ciascuna cella riceveva questa farina.

Una notte, mentre tutti dormivano, qualcuno mangiò metà della farina di Moon. Quando il furto fu scoperto, il giorno dopo, gli altri prigionieri assalirono il colpevole, pronti a picchiarlo.

Moon però intervenne: «Non lo picchiate. Lasciatelo». I prigionieri seguirono con riluttanza ciò che Moon chiedeva. E Moon aggiunse: «Pensate a quanto doveva essere affamato per dover rubare. Se lascio il sacco nella cella questo tipo di furti si ripeterà; perciò dividiamoci la farina», distribuendo quindi il resto(35).

Oltre alle trentacinque persone che lavoravano in cucina, e che erano ben nutrite, gran parte dei prigionieri erano pelle ed ossa. Pak, in quanto leader, riceveva una gran quantità di farina di riso dai prigionieri ai quali faceva svolgere lavori leggeri. Egli la passava a Moon, che la condivideva con altri.

Anche la madre di Moon portava al figlio della farina di riso; le sue visite però costituivano per lui quella che probabilmente era l’esperienza più dura che doveva affrontare. La sua lotta per mantenere la dignità del campo di sterminio, e la forza per sopportare quello che considerava il suo più difficile test di fede, dipendevano dalla sua capacità di concentrarsi non su se stesso ma su Dio e sugli altri prigionieri. Se qualcosa poteva strappargli il cuore, e portarlo a pensare a se stesso ed alla propria sofferenza, erano le lacrime di sua madre.

«Quando finirai di scontare la pena, dovrai smettere di predicare e dovrai dedicarti alla tua famiglia. Non puoi continuare a ficcarti nei guai. Devi tornare a casa», lo implorava(36).

«Quando uscirò dovrò continuare a lavorare per Dio. Ho una missione da compiere».

«Ma finirai solo col metterti nei guai. Vogliamo che ritorni a casa!» lo implorò.

«Se sei venuta per piangere per me, fammi un favore: non farti più vedere» rispose lui, nascondendo il suo terribile dolore. Prese gli abiti e la farina di riso che sua madre aveva portato per lui e di fronte a lei distribuì il tutto agli altri prigionieri.

La madre tornò al villaggio e cominciò a piangere disperata, picchiando in terra con i pugni: «Perché mi fa soffrire così? Ha dato agli altri tutto il cibo! È l’ultima volta che vado a trovarlo!»(37).

Il mese successivo però preparò miele, crema di fagioli, dolci di riso e frutta. «Questa volta mangerà tutto lui» disse alla famiglia prima di prendere il treno. Di nuovo però Moon distribuì il cibo di fronte a lei. Tornata a casa, pianse di rabbia dicendo tra sé e sé: «Ho fatto tutto per te e tu l’hai dato via!». Rimase in collera per settimane. In autunno preparò delle calze e degli abiti caldi, ma il figlio distribuì anche queste cose. Tornata a casa pianse di nuovo. Una volta rimase per tre settimane con Ok Se-hyun in Pyongyang, di ritorno da Heungnam. Le disse che quando sarebbe stato liberato, non gli avrebbe più permesso di lasciare casa. Ok le spiegò qualcosa in merito alla sua predicazione ed alla sua missione. Non si oppose alle cose che Ok le disse, ma sembrò che non le capisse a fondo(38).

In Pyongyang, i suoi seguaci non si mantenevano in contatto tra di loro. L’unico membro che avrebbe potuto tenere assieme gli altri in assenza di Moon era Kim Chong-hwa, che era stato condannato a diciotto mesi di prigione contemporaneamente a Moon, ma la donna non era riuscita a riconciliare la propria fede in Moon con l’evidente incapacità da parte di Dio di impedire la sua cattura ed il suo internamento. Fu liberata dopo un anno e non mostrò più alcun interesse in lui o nei suoi seguaci. Solo Ok Se-hyun ed il giovane Kim Won-pil continuavano a svolgere insieme i servizi di preghiera.

Kim Won-pil teneva il conto, su un calendario, dei giorni che mancavano alla liberazione di Moon. Lo visitò due volte, ed Ok cinque volte. Quando i visitatori arrivavano e chiedevano di incontrare il proprio marito o il loro amico, ricevevano a volte la notizia che era morto; anche Ok, ogni volta che si presentava alla prigione, si chiedeva se avrebbe trovato Moon vivo oppure no. Una volta le guardie rifiutarono di far consegnare a Moon delle calze che aveva fatto. Immaginò che lo avessero fatto perché sembravano troppo costose, così ne fece altre usando i propri capelli; la volta seguente ricevette il permesso di consegnarle.

Le guardie, dopo che i visitatori avevano consegnato vestiti e cibo, li facevano uscire in fretta. Alle 18 le visite erano terminate. I prigionieri si sedevano in cerchio nelle loro celle per parlare. Non era permesso loro di dormire fino alla sirena delle 22.00. La sera era l’unico momento della giornata in cui avrebbero potuto parlare, ma era proibito farlo. Non vi erano libri, così sussurravano tra di loro.

Pak, che aveva il permesso di muoversi liberamente prima delle 22,00, si recava nella cella di Moon ed assieme a lui discuteva sottovoce della Bibbia e del suo insegnamento. Pak non parlava agli altri nella cella di Moon, perché sapeva che vi erano degli informatori in ogni baracca che passavano alle guardie delle informazioni in cambio di cibo(39). Alle 22,00 tutti dormivano. Moon pregava e si lavava il viso con il suo asciugamano ed andava a dormire alle 22,30.

La domenica non lavoravano. Si sedevano nelle celle e mangiavano i soliti tre pasti. Non avevano il permesso di dormire, così parlavano sottovoce e si rasavano con pezzi di bottiglie rotte presi nella fabbrica. I fumatori mettevano da parte i mozziconi raccolti nella fabbrica durante la settimana e ne facevano sigarette; strofinavano poi cotone e fili di corda per accenderle.

Ogni sei mesi circa veniva chiesto ai prigionieri di scrivere delle «riflessioni» e di consegnarle entro una o due settimane. Dovevano scrivere del loro sviluppo rivoluzionario e mostrare pentimento per i loro «crimini»; dovevano anche elencare le lamentele relative alle strutture carcerarie(40). A loro era vietato di camminare nel campo, e conoscevano così solo la loro baracca. Gli edifici erano in cemento, il pavimento era coperto di tavole di legno, la porta era in legno massiccio. Il tetto era in tegole ed una piccola finestra in vetro, con barre all’esterno, permetteva a poca luce di illuminare l’oscurità. Un gabinetto alla turca in un angolo della cella non permetteva alcuna forma di privacy; aveva però un coperchio, cosa di cui il prigioniero che dormiva accanto ad esso era molto grato.

Durante il gelido inverno le celle venivano riscaldate. Ogni prigioniero aveva in dotazione due coperte, una da stendere in terra e l’altra per coprirsi. Dal momento che le celle erano affollate, la vicinanza dei corpi contribuiva a mantenere il calore. Nella fabbrica non c’era riscaldamento, ma anche in inverno sudavano a motivo del lavoro intenso. L’estate era insopportabilmente calda. Indossavano gli stessi abiti tutto l’anno, a meno che qualche visitatore non ne fornisse loro altri. Moon si ammalò di malaria ma rifiutò gli inviti di Pak di ricoverarsi in infermeria. «Sono qui non perché ho commesso un crimine(41) ma per la mia missione», disse. Continuò a lavorare e guarì dopo una o due settimane.

Quattro giorni all’anno – il nuovo anno lunare, il compleanno di Kim Il-sung (15 aprile), il Giorno del lavoro (1° maggio) e l’anniversario della fondazione dello Stato del Nord Corea (9 settembre) – erano considerati festivi. In una di queste occasioni, delle guardie sorridenti dissero ai prigionieri che avevano macellato una mucca, che avrebbe fatto parte del pasto del giorno dopo. Il campo era in fermento per questo.

«Il compagno Kim Il-sung vi ha gentilmente permesso di mangiare carne oggi», dichiarò il comandante all’adunata dei prigionieri, dopo un lungo discorso di esaltazione del leader della nazione. Quando la zuppa arrivò, era identica a quella degli altri giorni: «Forse una mucca ci ha camminato dentro, ma con gli stivali…» borbottò un criminale comune nella cella. «Non c’è nemmeno un pelo di mucca qui dentro».

«C’è qualche pezzetto di carne…» disse il leader di una squadra di lavoro, a titolo di incoraggiamento. Dopo quella volta, i prigionieri non attesero più con grande ansia il cibo extra delle feste.

In un’altra occasione alla zuppa fu aggiunta della carne di balena, ma la sera gran parte dei prigionieri era in preda a dolori di stomaco e diarrea. Alcune persone svennero e cominciarono a perdere i capelli.

«Ma cosa c’era dentro?» chiese Pak a Moon.

«La carne era avariata. Ci siamo ammalati perché siamo troppo affamati. Non ti preoccupare, ci sentiremo tutti meglio in qualche ora. Devi riferirlo alle autorità ma non ti preoccupare. Preoccupati piuttosto di diffondere il Principio». Ai prigionieri vennero concessi due giorni di riposo per riprendersi.

Nella primavera del 1950, le autorità della prigione cominciarono a classificare i carcerati in base al loro crimine ed alla lunghezza della condanna. Molti criminali comuni vennero chiamati dal comandante e liberati. Pak ne dedusse che erano stati arruolati. In effetti, era stata loro concessa la scelta tra l’entrare nell’esercito e lo scontare la loro condanna(42). Alle finestre delle baracche vennero applicati degli schermi per l’oscuramento.

«Posso darle della farina di riso?» Chiese un giorno Pak a Moon, timoroso di essere accusato di tentarlo con il cibo.

«Non ti preoccupare di me» replicò Moon; «presto succederanno cose importanti. Preoccupati della tua salute».

Moon scrisse una canzone su una delle etichette usate per contrassegnare il peso dei sacchi di fertilizzante. La chiamò «Il Giardino della Restaurazione», la cantò sul motivo di una marcia navale giapponese e chiese a Pak di impararla a memoria(43):

In questo mondo amareggiato dall’odio,

Durante migliaia d’anni,

Il Padre ha cercato una Persona che trionfasse in cuore;

Laddove ha lottato,

Ci sono impronte insanguinate;

Questo è l’amore che ci ha dato nel corso della

Provvidenza di salvezza,

Questo è l’amore che ci ha dato nel corso della

Provvidenza di salvezza.

Qui troviamo il fiore della gioia,

Nella libertà di Dio;

Il Suo giardino benedice il mondo con la fioritura della speranza;

Il fragrante profumo della Sua volontà

Ci riempie di gioia;

Questa vita porta a compimento i desideri di nostro Padre,

Questa vita porta a compimento i desideri di nostro Padre.

Freschi bouquet che esprimono gioia crescono,

Ed ondeggiano lievemente nella brezza;

La nostra vera ed eterna dimora è un porto di gioia;

Qui in questa bellezza divina

Vivremo per sempre;

Questo è il dono del Signore, la terra celeste del Padre,

Questo è il dono del Signore, la terra celeste del Padre.

La provvidenza eterna di Dio

È il Suo regno sulla terra;

Sulla terra Egli desiderava vedere il Suo vero

Giardino in fiore;

Ripieno del profumo del cuore,

Diffondere la Sua gloriosa gioia.

Questa è la gloria che verrà e che incoronerà tutto il mondo,

Questa è la gloria che verrà e che incoronerà tutto il mondo.

Un giorno, alcuni degli operai che verificavano il peso dei sacchi, dissero a Pak che le forze nordcoreane si stavano preparando ad attaccare il Sud. Il fertilizzante che stavano insaccando sarebbe stato spedito in Russia per pagare le armi acquistate.

«Cosa pensa che succederà?» chiese Pak a Moon.

«Il tempo sta per giungere» rispose fiducioso Moon.

«Ti ho detto che il mondo satanico sarebbe stato distrutto. Ben presto il Regno di Dio verrà realizzato sulla terra. Hai imparato a memoria ‘Giardino di Restaurazione’?», Cantarono insieme la canzone sottovoce. Nella tesa atmosfera che pervadeva il campo quella primavera, Pak si scoprì a cantare quella canzone per calmare il proprio nervosismo.

Alcuni giorni dopo, il capo dell’unità medica nella prigione gli disse che delle armi stavano arrivando dalla Russia, e che gli spostamenti dei civili sulle strade sarebbero stati sottoposti a limitazioni(44).

Il 25 giugno del 1950, i carri nordcoreani attraversarono rombando la frontiera, sferrando un attacco massiccio che colse di sorpresa le male armate truppe sudcoreane. Nel giro di tre giorni le forze comuniste giunsero a Seul. I prigionieri di Heungnam nella fascia di età tra i venti ed i venticinque anni, con condanne inferiori ai sette anni, furono arruolati, ad eccezione dei criminali politici. Le condizioni nel campo peggiorarono.

Pochi giorni dopo le prime truppe americane, che si erano ritirate dalla penisola nel 1949, vi fecero ritorno, e questa volta sotto la bandiera delle Nazioni Unite. Sedici nazioni inviarono loro contingenti per sostenere il Sud, formando un corpo di spedizione ONU guidato dagli americani. Per dieci giorni a partire dal 7 luglio, delle formazioni di nove o dieci bombardieri B-29 volarono su Heungnam e sganciarono le loro bombe, che colpirono i ponti della città ed altri obiettivi chiave. Ogni mattina, oltre ventimila dei centottantamila abitanti della città si rifugiavano sulle colline e tornavano a casa solo dopo che i bombardieri si erano allontanati(45).

Gli strateghi americani rivolsero presto la loro attenzione al complesso industriale di Heungnam(46). Quando si seppe che una delle industrie chimiche stava producendo elementi usati nel programma nucleare sovietico, il comandante delle forze ONU, il generale americano Douglas MacArthur, ordinò delle missioni speciali contro il sito. La richiesta dei militari di usare bombe incendiarie fu respinta dal governo di Washington, nel timore che quel tipo di attacco avrebbe potuto causare vittime civili. Lo Stato Maggiore USA ordinò anche che prima dei raid aerei venissero gettati dei volantini che invitavano i civili ad allontanarsi. Può darsi che questo tipo di eventi abbia salvato la vita di Moon e degli altri prigionieri.

Il 30 giugno, poco prima delle 10 del mattino, ben quarantasette bombardieri B-29 volarono su Heungnam in formazioni a ‘V’. La loro missione, denominata Nannie Able, consisteva nell’eliminare la Fabbrica Coreana di Esplosivi. I primi stormi aerei, volando sopra le nuvole, colpirono la fabbrica che si incendiò. Le fiamme si alzarono nel cielo così in alto e così intense che dissolsero lo strato di nuvole, tanto che gli ultimi stormi furono in grado di gettare le loro bombe senza fare uso del radar.

Due giorni dopo, al mattino, un aereo da ricognizione sorvolò la fabbrica di fertilizzante. «I bombardieri saranno qui presto. Dobbiamo andare nel rifugio» disse a Pak un prigioniero, ex capitano dell’esercito. A mezzogiorno le sirene cominciarono a suonare. I trentamila lavoratori corsero verso i rifugi. I prigionieri si ripararono dove poterono. Quarantasei B-29 comparvero nel cielo chiaro nelle solite formazioni a V e bombardarono la fabbrica per tre ore. Le loro bombe da duecentocinquanta chili esplodevano facendo sobbalzare gli aerei che volavano a cinquecento metri di altezza. L’ultimo stormo dovette accendere il radar per identificare l’obiettivo al di sotto della spessa coltre di fumo nero che ristagnava sulla fabbrica. L’operazione Nannie Baker, come era stata chiamata, aveva messo completamente fuori uso l’impianto.

«È tutto a posto?» chiese Pak a Moon una volta che tutto fu finito. Quando il bombardamento era iniziato, Moon stava lavorando nella zona dove venivano immagazzinati i sacchi vuoti.

«Dio mi ha detto che nel raggio di dodici metri attorno a me nessuno sarebbe stato colpito. Durante il bombardamento pregavo e comunicavo con i santi nel mondo spirituale», replicò Moon. Pak, esaltato dal fatto che entrambi erano sopravvissuti, cominciò a cantare «Giardino della Restaurazione».

Dopo la conta dei corpi, le guardie comunicarono che duecentosettanta persone erano state uccise dal raid(47).

Quella sera, Moon dette della farina di riso a tre prigionieri che stavano morendo di fame. Pak sarebbe stato rilasciato il giorno dopo, e passò gran parte della notte a parlare con Moon nella sua cella.

«Cosa dovrò fare quando uscirò?»

«Devi andare a Kyongchang-ri in Pyongyang e dire ai miei seguaci di non preoccuparsi di me».

«Non dovrei andarmene prima di lei» disse Pak con le lacrime agli occhi.

«Non fa niente. Resterò qui ancora poco tempo. Abbiamo così tante cose da fare. Va a Pyongyang e dì a tutti che sarò presto libero».

Al mattino Pak fu liberato. Andò alla fabbrica di fertilizzante e vide Moon in lontananza. Poi si diresse verso Pyongyang. Il giorno seguente, il 3 agosto, i B-29 tornarono e distrussero l’ultimo obiettivo industriale importante in Heungnam, la Fabbrica di Prodotti Chimici Bogun.

Dal momento che la fabbrica di fertilizzante era fuori uso, ai prigionieri fu ordinato di restare nelle loro celle(48). I criminali comuni rimanenti furono arruolati nei servizi ausiliari dell’esercito; con la loro partenza rimasero cinquecento prigionieri politici che, in più di una occasione, furono condotti nella cittadina di Heungnam per contribuire alla ricostruzione delle case distrutte dai bombardamenti.

Nel frattempo l’avanzata dei comunisti verso il sud cominciava ad essere contenuta e, grazie allo sbarco delle truppe delle Nazioni Unite ad Inchon ed alla conseguente liberazione di Seul nel settembre del 1950, le forze nordcoreane erano state messe in rotta. Nel settembre del 1950 Seul venne liberata. Quando la rotta delle truppe rosse ebbe inizio, le autorità della prigione pianificarono l’esecuzione dei prigionieri anticomunisti e l’evacuazione dei rimanenti prigionieri politici in altri campi più a nord. Nel frattempo, il 30 settembre, le truppe sudcoreane avevano superato il trentottesimo parallelo e si stavano dirigendo verso la costa est, per raggiungere Wonsan(49). Nei campi di prigionia di Wonsan e di Bongung, vicino ad Heungnam, iniziò il massacro di massa dei prigionieri.

Una sera della seconda settimana di ottobre, delle guardie si fermarono fuori di ogni singola cella della prigione di Heungnam, e chiamarono vari numeri di prigionieri. A questi fu ordinato di uscire.

«Cos’è successo?» chiese il giorno dopo un prigioniero ad una guardia attraverso lo spioncino della porta.

«Non lo so» rispose la guardia, «so solo che avevano un grosso cartello appeso al collo con il loro numero scritto in grande. Avevano le mani legate. Probabilmente sono stati fucilati».

Le guardie ritornarono e chiamarono altri numeri. Nella cella di Moon restarono circa dieci prigionieri. Prima della terza chiamata, le forze sudcoreane avevano attaccato una zona nella quale vivevano molte guardie. Queste lasciarono il posto per aiutare le loro famiglie a fuggire e tornarono il giorno dopo, il 14 ottobre. I rimanenti centocinquantadue prigionieri furono riuniti e a ciascuno di loro fu dato un sacco di riso da trasportare.

Uscirono dal campo e si diressero a nordovest, verso la città di Hamheung, in gruppi di circa venti. Ogni gruppo era accompagnato da sette o otto guardie armate. A sera, dopo varie ore di marcia nella pioggia, il gruppo di Moon raggiunse una collina nelle vicinanze di Hamheung e si fermò.

Il capo delle guardie disse: «Dovremmo condurvi ad Aoji, ma i binari sono stati bombardati, quindi non possiamo andare in treno. Non vi sono navi disponibili. Dobbiamo camminare». Aoji, la città mineraria del nordest, vicino alla frontiera sovietica, distava circa quattrocento chilometri da Heungnam. I prigionieri, indeboliti da anni di duro lavoro e dalla cattiva alimentazione della prigione, non erano in grado di percorrere quella distanza.

«Non possiamo camminare fino ad Aoji» dissero alcuni prigionieri. «Perché non ci liberate e basta?».

Le guardie convennero che il viaggio verso nord sarebbe stato pressoché impossibile. Discussero la situazione tra di loro. Dopo un po’ chiesero a ciascun prigioniero di confermare il proprio nome, indirizzo, reato, e durata della condanna ancora da scontare. Quando la lista fu completa, il capo delle guardie parlò ai prigionieri e chiese: «Promettete che, quando la guerra finirà, tornerete per finire di scontare la vostra condanna?»

«Sì, sì!», promisero tutti. Non riuscivano a credere alle loro orecchie.

«Va bene; a chiunque vi chieda cosa è successo, ditegli che io prendo la responsabilità per quello che ho fatto. Siete liberi di tornare a casa»(50).

I prigionieri cominciarono ad allontanarsi in gruppi di due o di tre. Moon discese dalla collina e si diresse ad Hamheung con Hahn Byoung-ku, un giovane studente antigovernativo che era stato nella sua cella. Quando raggiunsero il centro della città, Moon gli chiese di andare verso ovest con lui, ma Hahn rifiutò: «Vado a casa. Il mio villaggio è a poche ore a nord di questo posto» rispose, e si separarono(51).

Lungo la strada Moon incontrò uno dei suoi seguaci nel campo, Moon Jong-bin, il giovane dirigente del Partito comunista(52). Jong-bin decise di non andare a casa propria, ed i due uomini si incamminarono assieme verso Pyongyang.

Due giorni dopo, le truppe sudcoreane presero Heungnam ed Hamheung, e continuarono verso nord. Si giunse però ad un armistizio prima che le forze dell’ONU raggiungessero il campo di Aoji, che quindi non fu mai liberato.

Note

(1) L’episodio che riguarda di Kim Won-dok è basato sull’opera The History of the Unification Church, 29 dic. 1971, Washington DC, sulla testimonianza di Kim Won-pil, Testimony of Father’s Life, 14 ott. 1979, HSA-UWC, New York, e su interviste concesse all’Autore da Park Chong-hwa.

(2) Mu Jong era stato il comandante di un’unità coreana di Mao Tse-tung, ed aveva partecipato con quest’ultimo alla Lunga Marcia. Era un leader della fazione comunista «Yenan» della Corea del Nord, e più oltre fu vittima di una delle purghe di Kim Il-sung.

(3) Pak Chong-hwa ha affermato che il sogno dell’uomo sul trono era stato inventato dai primi seguaci. L’autore non è stato in grado di rintracciare Kim Won-dok per verificare la sua storia.

(4) In un’intervista concessa all’Autore a Seul, una persona che abitava in quel villaggio, Kim Yu-song, ha affermato che gli abitanti non sapevano quali fossero i reati commessi dai prigionieri.

(5) Questo aspetto è stato precisato da Kim In-ho (prigioniero numero 424) in un’intervista concessa all’Autore. Kim, all’epoca un giovane guerrigliero anticomunista, fuggì in seguito in Corea del Sud e divenne un agente segreto, esperto in operazioni sotto copertura contro la Corea del Nord. Un altro ex prigioniero, Hahn Byoung-ku, riferì all’autore che molti prigionieri politici erano studenti di Pyongyang. Anche Hahn fuggì al Sud, raggiungendo poi gli Stati Uniti dove riprese gli studi; al momento dell’intervista era professore di comunicazioni di massa all’Università Kyung-hee di Seul. Entrambi erano nella stessa cella di Moon.

(6) Intervista concessa all’autore da Lee Jong-kook (prigioniero numero 1084 e poi numero 247), al momento dell’intervista medico specializzato in medicina orientale a Seul.

(7) Questi aspetti della vita nel campo prima dell’arrivo di Moon sono ricavati dall’autobiografia di Kim In-ho, Oltre la linea della morte, capitoli 9-12, Jinheung Munhwa Co., Seul, 1984.

(8) Secondo Kim la suddivisione veniva effettuata in modo casuale.

(9) Secondo un ex prigioniero, Lee Jong-kook, il numero di sacchi era millecentocinquanta. Di questi, seicentocinquanta erano destinati all’esportazione in Unione Sovietica e Cina, e dovevano essere legati tre volte. I sacchi destinati alla Corea venivano legati una sola volta. Intervista concessa all’Autore.

(10) Kim In-ho, op. cit., p.76.

(11) I numeri 5, 9 e 6 in coreano si pronunciano o-ku-ryuk. Le prime due sillabe hanno un suono simile alla radice della parola che si pronuncia ok-ul-hada, e che significa «soffrire ingiustamente».

(12) Sun-myung Moon, serie di discorsi su The Hystory of the Unification Church, 28 dic. 1971, p. 1.

(13) Sun-myung Moon, discorso sul tema Io devo essere vittorioso per Dio, 20 feb. 1965, The Unified Family, Washington DC, p. 7. Vedi anche il discorso I tre stadi del giudizio in op. cit., New Hope, p. 35.

(14) La descrizione della prigione qui riportata è tratta da: The Hystory of the Unification Church, Kim In-ho op. cit., interviste concesse all’Autore da Kim In-ho, Pak Chong-hwa, e da altri sei sopravvissuti che vivono in Corea del Sud: Kang Sam-won, Ju Heung-shik, Hahn Byoung-ku, Lee Jong-kook, Kim Dong-ok e Kim Jong-chan. Pak è di gran lunga la fonte più autorevole. Anche se prigioniero, essendo un responsabile degli altri prigionieri godeva di una relativa libertà. Gli altri prigionieri non potevano né parlare né camminare liberamente nel campo, e la gran parte si conosceva solo come numero di detenuto. L’Autore ha registrato varie lunghe interviste con Pak, ed ha anche preso delle note da un discorso che Pak ha fatto in Seul a dei ministri religiosi americani l’11 aprile 1985.

(15) Aspetto della vita nella prigione raccontato da Kim In-ho in un’intervista concessa all’Autore.

(16) Ai prigionieri era vietato parlare. Kim In-ho, op. cit. p. 78, ha affermato che la probabile presenza di informatori nelle celle limitava le conversazioni di contenuto «non ortodosso».

(17) Il capo del gruppo in cui si trovava Moon era Kim Nam-seon.

(18) Pak, ricordando la fame che provava in prigione, citò un modo di dire coreano: «Quando i nostri genitori muoiono siamo tristi; lo siamo anche quando muoiono i nostri figli o nostra moglie; ma l’esperienza più terribile di tutte è quella della fame».

(19) Pak Chong-hwa spiegò che nel periodo in cui era in prigione si successero tre comandanti. Il primo fu Kim Byong-sup, che era stato un subordinato di Pak nel Comitato della Gioventù Democratica, un’organizzazione comunista. Kim fu sostituito da Hong Kee-soo, che era stato un membro dello stesso Comitato; Pak non ricordava il nome del terzo comandante.

(20) Kim In-ho descrisse i capi dei gruppi di lavoratori come «ladri, stupratori e assassini». La sua opinione è diversa da quella di Pak Chong-hwa, secondo il quale questi erano funzionari governativi o militari che, come lui, erano stati condannati per abbandono ingiustificato del servizio. Probabilmente a Kim, che era anticomunista, una tale distinzione sarà parsa piuttosto sottile.

(21) In realtà era stato un angelo a chiedere agli apostoli perché guardavano verso il cielo per vedere il ritorno del Cristo. Vedi Atti (1:11).

(22) Giovanni (2:4). Vedi anche Matteo (12: 46-50)

(23) Queste conversazioni sono state ricostruite dall’Autore sulla base dei principali punti ricordati da Pak. Per ulteriori spiegazioni di queste parole di Moon, vedi i discorsi: La speranza di Dio per l’uomo, La speranza di Dio per l’America, Il futuro del cristianesimo ed Il nuovo futuro del cristianesimo, in Sun-myung Moon, «God’s Will and The World», HSA-UWC, New York, 1985.

(24) Secondo Pak, Moon gli spiegò che Giuda era geloso perché Gesù intendeva sposare la donna che Giuda stesso amava: Maria, la sorella di Lazzaro. Giuda respinse l’invito che Gesù gli aveva fatto, di sposare invece la sorella di Maria, Marta, e per questi motivi lo tradì. L’Autore riporta questa affermazione in nota a motivo delle incertezze nei ricordi di Pak. Le affermazioni relative a Giovanni Battista ed alla madre di Gesù, Maria, sono riportate da varie fonti unificazioniste, ma l’Autore non è al corrente di conferme delle affermazioni su Giuda. Moon potrebbe aver semplicemente detto che secondo lui l’azione di Giuda fu motivato da gelosia.

(25) Pak affermò che un certo numero di prigionieri fecero dei sogni che avevano come oggetto Moon. Kim In-ho, op. cit., afferma che cominciarono a circolare voci su strani poteri del giovane ministro religioso. Secondo lui le guardie non infierivano su Moon perché una di queste una volta, dopo averlo picchiato, subì un qualche tipo di «punizione soprannaturale». Kim potrebbe aver sentito da altre fonti la storia di Pak e potrebbe aver presunto che Pak fosse una guardia.

(26) Secondo Pak, Moon usò la parola wonhwa-won, letteralmente «giardino dell’armonia circolare». Questa parola non è più stata usata nei suoi insegnamenti.

(27) Il vincitore era scelto dal responsabile del campo da una selezione di sette o otto nomi preparata da Pak. Intervista concessa da quest’ultimo all’Autore.

(28) Tutto ciò è stato ricostruito in base ai ricordi di Pak delle sue conversazioni con Moon in due occasioni, in cui Pak fece in modo da concedere a Moon due giorni di assenza dal lavoro.

(29) In qualità di responsabile, Pak aveva il permesso di avere carta e matita. Fu così in grado di tenere un diario della sua prigionia.

(30) Moon disse a Pak: «Il fatto che hai avuto quel sogno è perché i tuoi antenati hanno accumulato dei meriti nel mondo spirituale. Alcuni prigionieri però hanno cattivi antenati, quindi è molto difficile per loro, anche se li aiuti». Intervista concessa da Pak all’Autore.

(31) I nomi dei seguaci furono forniti all’Autore da Pak. Le informazioni su Kim Jin-soo provengono da Kim In-ho, op. cit., e da The Christian Encyclopedia, The Christian Literature Press, Seul, 1980, p. 295. Secondo Pak, gli unici due che compresero il messaggio furono Kim Won-dok e Kim Jin-soo. Il lettore deve comprendere che il simbolismo del numero dodici, che riecheggiava quello degli apostoli, era importante per Moon, ma la definizione di «seguace» deve essere intesa in senso ampio.

(32) Ju, che più oltre cambiò nome in quello di Ju Chang-woo, fu presentato all’Autore da Pak Chong-hwa. L’Autore non è stato in grado di verificare in modo indipendente se Ju era stato davvero un attivista anticomunista, come affermava, e non invece un criminale comune. Vedi nota 210 più oltre.

(33) Nell’ottobre del 1948, Shtykov divenne il primo ambasciatore sovietico a Pyongyang.

(34) Una volta in Corea del Sud, Moon e Ju cercarono separatamente di trovare il tesoro, ma senza successo (vedi Capitolo 10).

(35) Pak riferì che in quel momento si trovava nella cella di Moon, e fu testimone dell’avvenimento.

(36) Ricostruzione in base all’intervista concessa all’Autore da Ok Se-hyun e da Kim Won-pil, Prison Life in Hungnam, Today’s World, luglio 1983. Entrambi appresero questo fatto dalla madre di Moon e più avanti da Moon stesso. Questi ha fatto cenno alcune volte a questa lotta interiore nei suoi discorsi. Ad esempio: «Quando ero in prigione i miei genitori mi visitavano e mi chiedevano di abbandonare la missione che avevo ricevuto da Dio, di rinnegare la mia missione. Anche se mi ferì profondamente, come se un coltello penetrasse nelle mie carni, li respinsi». Vedi The Blessing of God Through History, 13 feb. 1965, The Unified Family, Washington DC, p. 4.

(37) Intervista concessa all’Autore da Moon Yong-gi.

(38) Ok riferì che la madre di Moon dormì una notte a casa sua prima di visitare il figlio, e dopo un’altra visita si fermò presso di lei per venti giorni: «Si dedicava totalmente a lui e non voleva lasciarlo da solo in prigione». Secondo Ok la madre di Moon visitò il figlio in Hungnam due volte, mentre secondo Moon Yong-gi lo incontrò più volte.

(39) Secondo Pak un informatore sorvegliava Moon.

(40) Pak riferì che queste riflessioni venivano gettate in un angolo ed abbandonate: nessuno le leggeva né tantomeno rispondeva ad esse.

(41) In coreano, «reato» e «peccato» sono resi con la stessa parola. Secondo Moon, per compiere la propria missione egli non doveva riposarsi né accettare favori.

(42) Secondo quanto ha dichiarato Kim In-ho in un’intervista concessa all’Autore, Ju Heung-shik faceva parte di questo gruppo.

(43) Negli anni ’50, un amico di Pak compose una nuova melodia. Oggi questa canzone è uno degli Inni della Chiesa dell’Unificazione.

(44) Questa persona, Lee Moon-jae, non era un prigioniero.

(45) Intervista concessa all’Autore da Won Jang-sup, capo della polizia di Hungnam durante i tre mesi di occupazione sudcoreana nel 1950.

(46) Per un resoconto della campagna di bombardamenti e degli attacchi ad Hungnam, vedi Robert F. Futrell, The United States Air Force in Korea 1950-1953, Office of Air Force History, USAF, Washington DC, 1983, pagg. 183-190.

(47) Pak, intervista concessa all’Autore.

(48) Il resoconto delle dieci ultime settimane nel campo è stato redatto sulla base delle interviste concesse da quattro ex prigionieri che riuscirono a raggiungere la Corea del Sud. Questi sono: Hahn Byoung-ku, Lee Jong-kook, Kim Dong-ok e Kim Jong-chan.

(49) Per un resoconto ufficiale dell’avanzata lungo la costa est da parte dell’esercito sudcoreano, vedi: History of UN Forces In Korean War, Vol. IV, Ministry of National Defense, Seoul, 1975, pp. 306-308.

(50) Di questo gruppo facevano parte Hahn Byoung-ku, Lee long-kook e Kim long-chan. Kim Dong-ok era in un altro gruppo, che era fuggito da una casa durante la notte; quella casa era stata requisita per la notte e le guardie si erano addormentate.

(51) Pak Chong-hwa e Ju Heung-shik danno una diversa versione del rilascio di Moon, secondo la quale le truppe sudcoreano liberarono il campo poco prima che Moon stesso venisse fucilato. Questa è la versione standard trasmessa nel Movimento dell’Unificazione. Pak era già stato liberato, ma Ju sostiene che lui e Moon si divisero non appena fuori del campo, con la promessa di vedersi di nuovo.

(52) Vedi Kim Won-pil, op. cit., Father’s Course, p 93. Kim si riferisce a Moon Jong-bin senza citarne il nome.

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