Capitolo 4 - Il lancio della nostra missione globale
Seguo la strada di Dio senza pensare alla mia vita
Subito dopo essere stato rilasciato dalla prigione di Seodaemun, andai al tempio buddista di Gabsa sul monte Gyeroung, nella provincia di Choongcheong. Dovevo curare le ferite delle torture subite nella prigione di Seodaemun. Inoltre, mi serviva un bosco dove potessi pregare e riflettere sul futuro della nostra chiesa. Non era passato tanto tempo dalla fine della guerra di Corea, e semplicemente trovare cibo sufficiente per sopravvivere era spesso arduo.
Tuttavia, nonostante queste difficoltà nell’immediato, era importante che preparassi programmi a lungo termine. Ancora non avevamo una chiesa abbastanza grande da accogliere tutti i nostri membri per le celebrazioni, ma sentivo che era essenziale dedicare del tempo a guardare oltre, nel futuro più lontano.
Dopo il crollo del dominio coloniale giapponese e la liberazione della Corea nel 1945, i due paesi non avevano ancora stabilito relazioni diplomatiche. Il Giappone non aveva riconosciuto il governo di Seul e la Corea considerava il Giappone una nazione nemica. Ero convinto, considerando la situazione mondiale, che i due Paesi dovessero riprendere contatto. Facemmo vari tentativi per mandare un missionario in Giappone, ma senza fortuna. Alla fine, fu Bong Choon Choi a portare a termine questo compito.
Nel 1958 chiamai Bong Choon Choi e lo incontrai sul monte alle spalle del tempio di Gabsa. Gli dissi: «Devi andare immediatamente in Giappone. Non potrai tornare in Corea finché non sarai stato vittorioso». Egli rispose «Sì» senza alcuna esitazione. Insieme cantammo l’inno cristiano coreano che comincia con le parole:
Chiamati da Dio, onoriamo la chiamata;
Signore, noi andremo dovunque ci dirai.
Scendemmo dal monte insieme, con il morale altissimo. Non mi chiese neppure come si sarebbe mantenuto in Giappone o come avrebbe dovuto cominciare la sua attività lì. Bong Choon Choi era un uomo coraggioso.
Alla maggior parte dei Coreani non era permesso recarsi in Giappone. La sua unica possibilità di entrare in Giappone era come clandestino, senza un visto d’ingresso. Avrebbe dovuto superare tante difficoltà.
Bong Choon Choi non aveva la minima idea di come avrebbe fatto a entrare in Giappone ma era pronto, se fosse stato necessario, a dare la propria vita. Finché non seppi che aveva traversato sano e salvo il tratto di mare fino al Giappone, misi da parte qualsiasi altro impegno e rimasi a pregare in una piccola stanza della chiesa, senza mangiare né dormire. Avevamo dovuto chiedere un prestito di 1.500.000 won per il suo viaggio. Molti dei nostri membri non avevano da mangiare, ma evangelizzare il Giappone era così importante che tutto il resto doveva essere messo in secondo piano.
Sfortunatamente, Bong Choon Choi fu arrestato non appena ebbe messo piede in Giappone. Fu condotto in prigione, prima a Hiroshima e poi a Yamaguchi, in attesa di essere espulso. In prigione decise che sarebbe morto piuttosto che essere rimandato in Corea, e cominciò a digiunare. Durante il digiuno si ammalò. Le autorità giapponesi decisero di ricoverarlo in ospedale e rinviare la sua espulsione fino a quando non si fosse rimesso in salute. In ospedale riuscì a sfuggire alla sorveglianza.
Dopo tanti sforzi, compiuti a rischio della sua vita per un anno e mezzo, Bong Choon Choi fondò la chiesa in Giappone nell’ottobre del 1959. Corea e Giappone non avrebbero intrattenuto relazioni diplomatiche per altri sei anni. In effetti la Corea, avendo ancora fresco il ricordo doloroso della sofferenza sotto il dominio coloniale giapponese, respingeva qualsiasi invito ad avviare contatti con il Giappone.
Io mandai il nostro missionario come un infiltrato, in quella nazione nemica, per il bene del futuro della Corea. Invece di rifiutare ogni contatto, la Corea avrebbe dovuto evangelizzare il Giappone, in modo da acquisire, nelle future relazioni bilaterali, il ruolo preminente. La Corea era povera da un punto di vista materiale, quindi aveva la necessità di aprire un canale di comunicazione con il governo giapponese, portare il Giappone dalla propria parte e poi collegarsi con gli Stati Uniti. Così la Corea sarebbe potuta sopravvivere.
Come frutto di quel tentativo vittorioso, grazie al sacrificio di Bong Choon Choi, che aveva avviato la sua attività missionaria in Giappone, si unì alla chiesa un eccezionale leader giovanile di nome Osamu Kuboki, insieme a un gruppo di giovani che lo seguirono. Il risultato del loro lavoro fu la salda fondazione della chiesa giapponese.
L’anno successivo mandammo missionari in America. Questa volta non ci furono problemi, e riuscirono ad avere i passaporti e i visti prima della partenza. Fummo aiutati nell’ottenimento dei passaporti da alcuni ministri del partito liberale, che avevano contribuito a farmi imprigionare nel carcere di Seodaemun. In precedenza, si erano opposti a noi, ma in quella fase ci stavano aiutando.
A quei tempi, gli Stati Uniti ci sembravano una nazione lontanissima. Alcuni membri della nostra chiesa si opposero all’idea di mandare là i nostri missionari, sostenendo che fosse più importante rafforzare prima la nostra fondazione in Corea. Tuttavia li convinsi dell’importanza di quel progetto, spiegando che, se non fosse stata risolta la crisi dell’America, anche la Corea sarebbe stata distrutta.
Nel gennaio del 1959 mandammo Young Oon Kim, una delle professoresse che erano state licenziate dall’università femminile di Ewha. Poi, nel settembre dello stesso anno, mandammo anche David S.C. Kim. Il lavoro che iniziarono in America aveva come obiettivo il mondo intero.
Denaro guadagnato onorevolmente, speso con tanta preghiera
Le risorse accumulate attraverso gli affari sono sacre. Tuttavia, perché i proventi degli affari possano essere sacri, è fondamentale non mentire e non realizzare utili eccessivi sul singolo prodotto. Nel condurre gli affari, dobbiamo essere sempre onesti e non dobbiamo mai applicare un margine di profitto superiore al 30%. Il denaro guadagnato in questa maniera onorevole deve, naturalmente, essere speso con tanta preghiera. Deve essere utilizzato per uno scopo, e con un intento, assolutamente chiari. Questo è il principio d’imprenditoria commerciale che ho promosso per tutta la vita. Io credo che lo scopo dell’economia non consista soltanto nell’accumulare ricchezza; essa deve anche sostenere l’attività missionaria, che è il lavoro di Dio.
Una ragione per la quale mi adoperai a reperire i fondi per le attività missionarie attraverso imprese commerciali era che non volevo prendere il denaro dei nostri membri per questo scopo. Non importa quanto la motivazione fosse elevata, non si potevano mandare missionari oltremare soltanto col desiderio. C’era bisogno di fondi e questi fondi dovevano essere raccolti nel nome della chiesa. Il denaro per le missioni doveva essere guadagnato in modo onorevole. Solo così saremmo potuti essere fieri di tutto quello che avremmo fatto.
Quando analizzai le varie modalità per fare soldi, la mia attenzione fu attratta dai francobolli. A quei tempi, suggerivo ai membri di scriversi lettere tra loro almeno tre volte al mese. Impostare una lettera costava 40 won, ma suggerii di non applicare sulla busta semplicemente un francobollo da 40 won e di usare, invece, quaranta francobolli da 1 won. Prendemmo i francobolli annullati dalle lettere, li vendemmo e riuscimmo a raccogliere un milione di won nel primo anno. Vedendo che quei francobolli usati, apparentemente insignificanti, potevano produrre tanto denaro, i membri continuarono quell’attività per sette anni. Vendemmo anche fotografie in bianco e nero di luoghi celebri o di personaggi famosi dello spettacolo, che avevamo colorato a mano. Anche questo commercio contribuì in modo significativo a finanziare le attività della nostra chiesa.
Con la crescita della chiesa, i francobolli e le fotografie colorate non furono più sufficienti per produrre le risorse necessarie per il nostro lavoro missionario. Dovevamo portare i nostri affari a un livello più alto, se volevamo mandare missionari in tutto il mondo.
Nel 1962, prima che il governo coreano rivalutasse la moneta, comprammo per 720.000 won un tornio, che era stato utilizzato dai Giapponesi e poi abbandonato. Dopo la rivalutazione, il tornio valeva 72.000 won. Il valore della valuta coreana fu agganciato a quello del dollaro, per un valore, all’epoca, di 125 won per dollaro, così il valore ufficiale del nostro investimento era di 576 dollari. Sistemammo il tornio nel deposito della carbonella della casa di «proprietà nemica» che usavamo come chiesa e lo chiamammo «Industrie Tongil» (1)
«A voi questo tornio potrà sembrare insignificante – spiegai – e vi domanderete che genere di affari potremo fare installando questo macchinario vecchio e usato. Tuttavia, questa macchina che vedete si moltiplicherà in breve tempo, diventerà 7.000, o anche 70.000 torni, e la nostra società si svilupperà insieme con l’industria automobilistica e militare della Corea. Questo macchinario che abbiamo installato oggi sarà sicuramente la pietra angolare per lo sviluppo dell’industria automobilistica del nostro paese. Abbiate fede. Abbiate la convinzione che ciò sicuramente accadrà».
Questo è ciò che dissi alle persone riunite davanti al deposito della carbonella. Fu un umile inizio, ma il nostro scopo era alto e grandioso. I membri raccolsero il mio appello e lavorarono con dedizione. Come risultato, nel 1963 fummo in condizioni di iniziare una nuova impresa, su una scala in qualche modo più ampia. Questo progetto riguardava la costruzione di un’imbarcazione da pesca, che varammo presso il molo di Manseok Dong, nel porto di Incheon, e battezzammo Cheon Seung Ho, che vuol dire «Vittoria del Cielo». Circa duecento persone parteciparono alla cerimonia.
L’acqua è la sorgente della vita. Tutti noi siamo nati dal grembo di nostra madre. Nel grembo c’è l’acqua, così noi siamo nati dall’acqua. Io varai la barca con la fede che, in analogia a come riceviamo la vita dall’acqua, dobbiamo andare in mare e superare lì una serie di prove, per diventare capaci di sopravvivere alle prove che affronteremo sulla terra.
La Cheon Seung Ho era una barca eccezionale. Navigò per tutto il Mar Giallo e prese tanto pesce. Tuttavia, la reazione di molti fu che avevamo abbastanza da fare sulla terra e non c’era bisogno che uscissimo in mare e andassimo a pescare. Sentivo, però, che il mondo stava per entrare in un’era oceanica. Il varo della Cheon Seung Ho era stato un piccolo, ma prezioso, primo passo verso l’inaugurazione di quell’era. Stavo già immaginando nella mia mente la vastità dell’oceano a bordo di imbarcazioni più grandi e più veloci della Cheon Seung Ho.
La forza della danza muove il mondo
La nostra non era una chiesa ricca. Al contrario era povera, iniziata da persone che non potevano permettersi cibo sufficiente per nutrirsi bene. Non avevamo gli edifici eleganti che avevano altre chiese, ci nutrivamo di orzo mentre gli altri mangiavano riso, e risparmiavamo i soldi un poco alla volta. Poi, condividevamo quel denaro con chi era più povero di noi. I nostri missionari dormivano in locali senza riscaldamento e stendevano i loro sacchi a pelo sul pavimento di nudo cemento. Quando veniva l’ora di pranzo, era per loro pratica comune combattere la fame con qualche patata bollita.
In ogni caso, facemmo del nostro meglio per non spendere soldi per noi stessi. Nel 1963, usammo il denaro che avevamo risparmiato in questo modo per scegliere diciassette bambine della scuola Seonghwa e formare un corpo di ballo, che chiamammo i «Piccoli Angeli». La Corea, a quel tempo, era assai povera di spettacoli culturali. Non avevamo nulla cui noi stessi potessimo assistere e appassionarci, e meno che mai spettacoli da mostrare alla gente di altri Paesi. Eravamo tutti troppo occupati a cercare di sopravvivere, per ricordarci di cosa fosse la danza coreana o anche semplicemente del fatto che avevamo un patrimonio culturale che risaliva fino a cinquemila anni addietro.
Il mio programma consisteva nel far sì che quelle diciassette bambine imparassero la danza e poi andassero nel mondo. Molti stranieri conoscevano la Corea soltanto come un paese povero che aveva combattuto una guerra terribile. Io volevo mostrare loro la bellezza della danza coreana, così che potessero rendersi conto che la Corea è un paese di grande cultura. Avremmo potuto a lungo insistere nell’affermare che eravamo un popolo ricco di cultura con una tradizione di cinquemila anni: nessuno ci avrebbe creduto se non avessimo avuto nulla da mostrare loro.
Le nostre danze - con ballerine vestite di bellissimi hanbok (2) lunghi fino a terra, che roteavano tutt’intorno - sono una meravigliosa eredità culturale, che può trasmettere un’esperienza nuova agli occidentali, abituati a vedere ballerine che saltano qua e là con le gambe nude. Le nostre danze sono imbevute della storia dolorosa del popolo coreano. Le movenze della danza coreana - in cui le ballerine tengono la testa leggermente chinata, e si muovono con la cura di non attirare l’attenzione su se stesse - sono state create dal popolo coreano la cui storia, lunga cinquemila anni, è stata piena di sofferenza.
Quando la ballerina alza il piede avvolto nella beoseon, la calzamaglia bianca tradizionale, e lo spinge avanti per fare un singolo passo, volta gentilmente la testa e alza la mano. Quando osservo questo movimento, la sua lieve gentilezza sembra sciogliere tutte le ansie e le frustrazioni del mio cuore.
Non c’è il tentativo di coinvolgere il pubblico con una quantità di parole declamate ad alta voce. Ciascun passo della danza è invece compiuto con una gentilezza e levità che muovono il cuore del pubblico. Questo è il potere dell’arte: permettere la comunicazione tra persone che non capiscono l’una la lingua dell’altra. Essa fa sì che persone che non conoscono l’una la storia dell’altra ne comprendano il cuore.
In particolare, l’espressione innocente del viso e il sorriso luminoso delle bambine avrebbero di certo riabilitato definitivamente l’immagine oscura di un paese che era da poco uscito dalla guerra. Creai questo corpo di danza per presentare il balletto, ereditato dai nostri cinquemila anni di storia, alla gente degli Stati Uniti, il paese più progredito del mondo in quel tempo. L’opinione pubblica, invece, ci coprì di critiche. Prima ancora di aver visto danzare i Piccoli Angeli, cominciarono ad esprimere la loro disapprovazione: «Le donne della Chiesa dell’Unificazione danzano giorno e notte - dissero per schernirci - e adesso sembra che abbiano partorito bambine che danzano a loro volta».
Questi pettegolezzi, comunque, non riuscirono a scuotere la mia determinazione. Ero fiducioso di poter mostrare al mondo cosa fosse la danza coreana. Volevo che la gente che ci accusava di aver danzato nudi vedesse i movimenti belli e gentili delle ballerine che correvano leggere, vestite con la beoseon. Non erano danze selvagge, fatte di contorcimenti e giravolte senza ritmo. Erano le danze gentili delle ballerine abbigliate nei costumi tradizionali della nostra nazione.
Gli angeli aprono un sentiero attraverso la foresta buia
Sono due le cose che dovremo lasciare ai nostri discendenti quando moriremo. Una è la tradizione (3), l’altra è l’istruzione. Un popolo senza tradizione è un fallimento. La tradizione è l’anima che consente a un popolo di esistere; un popolo senz’anima non può sopravvivere. La seconda cosa importante è l’istruzione. Un popolo che non tramanda un’istruzione ai suoi discendenti è anch’esso un fallimento. L’istruzione ci dà la forza di vivere con nuove conoscenze e nuovi obiettivi. Tramite l’istruzione, la gente acquisisce la capacità di discernere necessaria per la vita. Chi non sa leggere è ignorante ma, una volta istruito, saprà come usare la propria conoscenza nel mondo per dare una direzione alla propria vita. L’istruzione ci aiuta a comprendere i principi secondo i quali il mondo opera.
Per aprire nuove prospettive per il futuro, dobbiamo, da una parte, trasmettere ai nostri discendenti la tradizione che ci è stata tramandata attraverso i millenni e, dall’altra parte, impartire loro l’istruzione concernente le cose nuove. Quando la tradizione e le nuove conoscenze sono adeguatamente integrate nella nostra vita, da esse nasce una cultura originale. Tradizione e istruzione sono entrambe importanti ed è impossibile stabilire quale delle due abbia la priorità sull’altra. La saggezza che serve per integrare l’una con l’altra ci viene anch’essa attraverso l’istruzione.
Contemporaneamente alla fondazione del corpo di danza, creai anche la Scuola delle Arti dei Piccoli Angeli (più tardi ribattezzata Scuola delle Arti Sunhwa). Lo scopo della fondazione della scuola era quello di divulgare nel mondo i nostri ideali attraverso le arti. La questione della nostra idoneità a gestire una scuola era di secondaria importanza. Per prima cosa misi in atto il mio piano: quando uno scopo è chiaro e buono deve essere messo in atto rapidamente. Volevo educare quelle bambine ad amare il Cielo, amare la propria nazione e amare l’umanità. Scrissi il mio motto per la scuola con una calligrafia che esprimeva, in caratteri cinesi: «Ama il Cielo, ama l’Umanità, ama la Nazione». Qualcuno mi chiese: «Perché hai scritto “Ama la Nazione” alla fine, se hai detto che il tuo scopo è mostrare al mondo la cultura unica della Corea?». Gli risposi: «Un uomo che ama il Cielo e ama l’umanità ha già amato la sua nazione. L’amore per la nazione è già maturato lungo il percorso».
Un coreano, che riesce a farsi rispettare nel mondo, ha già raggiunto lo scopo di far conoscere al mondo la Corea. I Piccoli Angeli sono andati in tanti paesi e hanno dimostrato l’eccellenza della cultura coreana, ma non hanno mai fatto alcuna dichiarazione di tono nazionalistico sul loro paese. L’immagine della Corea come una nazione di grande cultura e tradizione è stata saldamente impiantata nella mente del pubblico che ha assistito ai loro spettacoli e li ha applauditi. In questo senso, i Piccoli Angeli hanno fatto più di chiunque altro per la promozione della Corea nel mondo e per la pratica dell’amore verso la loro nazione.
Provo un’enorme soddisfazione ogni volta che vedo Su Mi Jo e Young Ok Shin esibirsi: dopo essersi diplomate alla Scuola delle Arti Sunhwa sono diventate cantanti di fama mondiale; ed anche quando vedo Julia Moon e Sue Jin Kang, che sono tra le migliori ballerine del mondo.
Sin dal 1965, quando misero in scena il loro primo spettacolo all’estero, negli Stati Uniti, i Piccoli Angeli hanno presentato la bellezza della tradizione coreana in tutto il mondo. Queste bambine sono state invitate dalla famiglia reale britannica e si sono esibite davanti alla regina Elisabetta II. Sono state invitate a prendere parte alle celebrazioni del bicentenario degli Stati Uniti, e hanno offerto il loro spettacolo al John F. Kennedy Center for the Performing Arts. Hanno offerto una rappresentazione speciale all’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon ed hanno partecipato al festival di cultura e arte svoltosi nell’ambito dei Giochi Olimpici di Seul. I Piccoli Angeli sono conosciuti in tutto il mondo come ambasciatori di cultura per la pace.
Nel 1990, quando visitai la Russia, i Piccoli Angeli avevano dato uno spettacolo la sera prima che lasciassi il paese, dopo il mio incontro con il presidente Mikhail Gorbachev. Le bambine coreane erano state al centro di Mosca, la capitale del comunismo. I Piccoli Angeli, dopo essersi esibiti nelle danze coreane vestendo i loro hanbok, cantarono con le loro bellissime voci delle canzoni tradizionali russe. Le ripetute richieste di bis da parte del pubblico impedirono loro di lasciare il palcoscenico. Alla fine, esaurirono completamente il loro repertorio di canzoni.
La moglie del presidente, Raisa Gorbacheva, era nel pubblico. A quel tempo, la Corea del Sud e la Russia non avevano ancora stabilito relazioni diplomatiche ed era insolito che la consorte del presidente assistesse a un evento culturale di un paese del genere. Ciononostante, la signora Gorbachev era seduta in prima fila e applaudì entusiasticamente per tutto il programma. Dopo lo spettacolo andò dietro le quinte e offrì dei fiori alla troupe. Elogiò a lungo la meraviglia della cultura coreana, dicendo: «I Piccoli Angeli sono davvero angeli di pace. Non sapevo che la Corea avesse questa bella cultura tradizionale. Durante tutto lo spettacolo, era come se stessi sognando la mia infanzia». La signora Gorbachev le abbracciò tutte e le baciò sulle guance, dicendo: «I miei piccoli angeli!».
Nel 1998, i Piccoli Angeli visitarono Pyongyang, in quello che fu il primo programma di scambio culturale completamente privato, non organizzato dal governo. Diedero tre spettacoli e danzarono la graziosa «danza del piccolo sposo» e la «danza dei ventagli», piena di colori. Gli occhi degli spettatori nordcoreani erano pieni di lacrime. L’obiettivo di un reporter catturò l’immagine di una donna che singhiozzava senza controllo. Yong Soon Kim, presidente della commissione nordcoreana per la pace nel Pacifico asiatico, elogiò i Piccoli Angeli dopo la loro esibizione con le parole: «Hanno aperto uno stretto sentiero attraverso la foresta buia».
Era esattamente quello che avevano fatto i Piccoli Angeli. Avevano dimostrato per la prima volta che i Coreani del Nord e del Sud, che per tanto tempo si erano voltati le spalle, erano capaci di incontrarsi in un luogo comune e assistere agli spettacoli offerti dagli uni agli altri. La gente pensa spesso che è la politica a muovere il mondo, ma non è così. Sono l’arte e la cultura che muovono il mondo. È il sentimento, non il ragionamento, a colpire le persone nella parte più riposta del cuore. Quando il cuore cambia e riesce a ricevere cose nuove, le ideologie e i regimi sociali cambiano di conseguenza. I Piccoli Angeli fecero ben più che promuovere la nostra cultura tradizionale nel mondo. Crearono dei sentieri, sia pur stretti, tra mondi completamente diversi uno dall’altro.
Ogni volta che incontro i Piccoli Angeli, dico loro: «Dovete avere cuori belli per esibirvi in danze belle. Dovete avere cuori belli per avere visi belli». La vera bellezza scaturisce da dentro di noi. I Piccoli Angeli sono stati capaci di aprire il cuore della gente di tutto il mondo, perché sono belle la tradizione e la cultura spirituale della Corea, di cui sono permeate le loro danze. Così, un applauso ai Piccoli Angeli è, in effetti, un applauso alla cultura tradizionale della Corea.
Il giro del mondo
Fin dall’infanzia ho sempre sognato di viaggiare in paesi lontani. Nel mio paese natale salivo sulla collina e cercavo di vedere il mare. Dopo essere arrivato a Seul, desiderai andare in Giappone. Ho sempre sognato di andare in posti più grandi di quello dove mi trovavo al momento.
Nel 1965, partii per il mio primo viaggio intorno al mondo. La mia valigia era piena di terra e pietre della Corea. Avevo in animo di lasciare in ciascuna nazione, mentre giravo il mondo, della terra e delle pietre della Corea, a significare il collegamento della Corea con il mondo. In dieci mesi viaggiai in quaranta nazioni, compresi il Giappone, gli Stati Uniti e le nazioni europee.
Il giorno che lasciai Seul, centinaia di membri arrivarono in autobus per salutarmi, riempiendo la sala partenze dell’aeroporto di Kimpo. A quei tempi, andare all’estero era un avvenimento speciale. I membri si accalcarono all’aeroporto quel giorno di gennaio, con un forte vento freddo che soffiava da Nord Ovest. Nessuno gliel’aveva chiesto. Avevano fatto ciò che il cuore aveva detto loro di fare. Ricevetti l’espressione del loro cuore con profonda gratitudine.
In quel periodo, avevamo attività missionarie in dieci paesi e avevo in programma di espanderle a quaranta nazioni entro due anni. È per porre la fondazione a questo progetto che decisi di visitare quaranta nazioni nel mio viaggio. La prima tappa fu il Giappone. Ricevetti un’accoglienza incredibile, lì dove Bong Choon Choi aveva rischiato la vita per avviare la nostra missione.
Domandai ai membri giapponesi: «Siete “del Giappone” o avete trasceso la condizione di essere “del Giappone”? Dio non vuole quello che è “del Giappone”. Non ha bisogno di ciò che è “del Giappone”. Ha bisogno di persone che trascendano il Giappone. Voi dovete andare oltre le limitazioni del vostro Paese per diventare giapponesi che amano il mondo, se dovete essere persone che possano essere usate da Dio». Poteva non essere facile per loro ascoltare questo, ma io mi espressi molto chiaramente.
La mia seconda destinazione fu costituita dagli Stati Uniti. Entrai nel Paese dall’aeroporto di San Francisco, dove vennero a incontrarmi i miei missionari. Partendo da lì, girai tutto il paese. In quel tempo in cui viaggiai per l’America, sentii profondamente nel mio cuore: «Questa è la nazione che guida tutto il mondo. La nuova cultura che sarà creata nel futuro deve sorgere avendo l’America come sua fondazione». Definii così un piano per acquistare un complesso che potesse ospitare corsi di studio per cinquecento persone. Naturalmente, non sarebbe stato riservato ai Coreani. Sarebbe dovuto divenire un centro internazionale per accogliere persone di oltre cento nazioni.
Fortunatamente questa speranza fu presto realizzata. Molti Paesi inviarono in questa struttura educativa gente che studiava e discuteva della pace nel mondo per corsi di studio di sei mesi. Razza, nazionalità e religione non erano importanti. Io sono certo che nel mondo si svilupperà una società migliore, quando persone che trascendano la razza, la nazionalità e la religione e coltivino un’ampia varietà di opinioni si riuniranno e discuteranno con spirito sincero della pace mondiale.
Durante il mio giro degli Stati Uniti visitai tutti gli stati, eccetto l’Alaska e le Hawaii. Noleggiammo una station wagon e viaggiammo giorno e notte. A volte l’autista era davvero stanco. «Ascolta - gli dicevo - non sono venuto qua per fare il turista. Sono qui per compiere un lavoro importante. Dobbiamo procedere con attenzione».
Non perdevamo tempo per mangiare seduti a tavola. Due fette di pane, un pezzo di salame e qualche sottaceto erano cibo più che sufficiente per un pasto. Facevamo colazione, pranzo e cena in questo modo. Dormivamo anche in auto. La macchina era il nostro alloggio, il nostro letto e il nostro ristorante. Mangiavamo, dormivamo e pregavamo in quella piccola macchina. Non c’era niente che non potessimo fare lì. Io avevo uno scopo specifico da assolvere, così mi riusciva facile ignorare quei piccoli disagi.
Dopo aver visitato gli Stati Uniti e il Canada, andai in America centrale e meridionale, e poi in Europa. Ai miei occhi, l’Europa apparteneva alla sfera culturale del Vaticano. Mi sembrava che non avremmo mai potuto avere successo in Europa se non avessimo compreso il Vaticano. Anche le Alpi, che si mostravano così difficili da scalare, apparivano poco significative al suo confronto.
Andai in Vaticano, dove i cattolici europei s’incontrano per pregare, e pregai tanto fervidamente che perle di sudore corsero giù per il mio viso. Pregai perché la religione, che era stata divisa in tante confessioni e gruppi diversi, potesse essere presto unificata. Dio ha creato un solo mondo, ma gli uomini l’hanno diviso in base alla loro convenienza. Quella visita mi convinse ancora di più che queste divisioni devono essere cancellate ed il mondo deve essere unificato. Dall’Europa, passai in Egitto e in Medio Oriente e portai a termine il mio viaggio dopo dieci mesi.
Quando tornai a Seul, la mia valigia era piena di terra e sassi, raccolti da centoventi luoghi in quaranta nazioni. Là dove avevo depositato la terra e le pietre che avevo portato dalla Corea, avevo raccolto terra e pietre da riportare in Corea. In questo modo, collegai la Corea a quelle quaranta nazioni in modo da preparare il giorno futuro in cui il mondo di pace sarebbe stato realizzato. Cominciai così i preparativi per mandare missionari in quelle quaranta nazioni.
L’ultimo aereo per l’America
Verso la fine del 1971 tornai negli Stati Uniti. Avevo determinati compiti che dovevano essere assolutamente realizzati in quel Paese, ma non mi fu facile arrivare lì. Non era la prima volta che andavo negli Stati Uniti, tuttavia l’attesa per ottenere il visto era stranamente lunga. Alcuni membri mi suggerirono di rimandare la partenza, ma non potevo farlo. Era difficile da spiegare, ma era importante che lasciassi la Corea nella data stabilita. Così, decisi di andare intanto in Giappone e richiedere lì il visto per gli Stati Uniti. Avevo fretta di lasciare la Corea.
Il giorno della mia partenza era piuttosto freddo, ma vennero a salutarmi così tanti membri che non tutti riuscirono ad entrare nel terminal. Quando venne il momento di presentarmi per il controllo del passaporto, si scoprì però che mancava il timbro del direttore della sezione passaporti del Ministero degli Esteri. Quel timbro era richiesto come prova che il governo mi avesse autorizzato a lasciare il paese. Per quel motivo persi il volo sul quale avevo in programma d’imbarcarmi.
I membri che avevano curato i preparativi per la mia partenza si profusero in mille scuse e mi suggerirono di ritornare a casa e aspettare finché non avessero rintracciato il direttore e ottenuto il suo timbro sul mio passaporto. «No» risposi. «Aspetterò qui all’aeroporto. Fate presto e procuratemi quel timbro».
Sentivo un’estrema urgenza. Era domenica, quindi il direttore non era nel suo ufficio. Ma non potevo lasciarmi frenare da certe questioni. Alla fine, i membri andarono a casa del direttore della sezione e si fecero rilasciare il timbro sul mio passaporto. Così potei prendere l’ultimo aereo del giorno in partenza dalla Corea. Quella sera stessa, il governo dichiarò lo stato d’emergenza nazionale e impose rigide restrizioni ai privati che avessero voluto viaggiare all’estero. Io mi ero imbarcato sull’ultimo volo possibile per andare in America.
In Giappone feci nuovamente richiesta del visto per l’America, che mi fu ancora rifiutato. Scoprii più tardi quale fosse il problema. Il governo coreano aveva ancora un fascicolo sul mio arresto ad opera della polizia coloniale giapponese, appena prima della liberazione, con l’accusa di essere un comunista. Nei primi anni ‘70 il comunismo si stava diffondendo con grande virulenza. Entro il 1975 avremmo inviato missionari in 127 nazioni, ma quelli mandati in quattro paesi comunisti sarebbero stati espulsi. Evangelizzare nelle nazioni comuniste, in quegli anni, poteva costare la vita. Io comunque non mi arresi e continuai a mandare missionari nell’Unione Sovietica e negli altri Paesi con lo stesso regime.
Il nostro primo missionario in Cecoslovacchia arrivò nel 1968. Intorno al 1980, cominciammo a chiamare le nostre attività missionarie nelle nazioni comuniste dell’Europa orientale come «Missione Farfalla». Una larva deve attraversare un lungo periodo di sofferenza prima di mettere le ali e diventare una farfalla, così paragonammo la sofferenza dei nostri missionari che operavano sotto copertura nei paesi comunisti alla sofferenza di una larva. Anche se uscire dal bozzolo è difficile la farfalla, una volta che ha le ali, può volare dove vuole. Inoltre sapevamo che, una volta che il comunismo fosse crollato, i nostri missionari avrebbero messo le ali e avrebbero cominciato a volare.
La missionaria Young Oon Kim, che era andata negli Stati Uniti all’inizio del 1959, visitò le maggiori università di quel paese per divulgare la parola di Dio. Facendo ciò, incontrò Peter Koch, uno studente tedesco che frequentava l’Università di Berkeley, in California; quel giovane decise di interrompere i suoi studi, prendere una nave per Rotterdam e iniziare a lavorare come missionario in Germania. Dal Giappone partirono missionari per i paesi comunisti dell’Asia. Dovettero essere mandati in luoghi dove le loro vite sarebbero state messe in pericolo, senza null’altro che una speciale celebrazione religiosa a segnare la loro partenza. Questo mi addolorò come se avessi dovuto di nuovo convincere Bong Choon Choi a infiltrarsi in Giappone, analogamente a quanto avevo fatto durante il nostro incontro finale, nella pineta alle spalle del tempio di Gabsa.
Un genitore che deve assistere alla sofferenza dei suoi figli preferirebbe certamente avere la possibilità di prendere quella sofferenza su di sé. Avrei preferito andare missionario io stesso. Il mio cuore era gonfio di lacrime quando mandavo quei membri in luoghi dove sarebbero stati sorvegliati e magari assassinati per le loro attività religiose. Dopo la partenza dei missionari, passavo quasi tutto il mio tempo in preghiera. Quelle preghiere profondamente serie erano quanto di meglio potessi fare per contribuire a proteggere le loro vite. L’opera di evangelizzazione nei paesi comunisti era pericolosa. Un missionario non poteva mai sapere se e quando i comunisti l’avrebbero catturato.
Coloro che andavano in missione nelle nazioni comuniste non potevano dire neppure ai loro genitori dove stessero andando. I genitori si sarebbero resi ben conto del pericolo che i loro figli avrebbero corso in quei paesi e non avrebbero mai accordato loro il permesso. Günther Werzer fu scoperto dal KGB ed espulso. In Romania, dove la dittatura di Nicolae Ceausescu era al culmine del suo potere, la polizia segreta seguiva e intercettava continuamente le telefonate dei nostri missionari. Era come se i nostri missionari fossero andati nella fossa dei leoni. Tuttavia il numero di coloro che andavano nelle nazioni comuniste continuò a crescere.
Poi, nel 1973, ci fu un terribile avvenimento in Cecoslovacchia: trenta dei nostri membri furono arrestati. Un membro, Marie Zivna, perse la vita in prigione all’età di ventiquattro anni. Fu la prima martire che morì mentre conduceva la sua opera missionaria in un paese comunista. L’anno seguente, un’altra persona morì in prigione. Ogni volta che sentivo che uno dei nostri membri era stato ucciso in prigione, tutto il mio corpo diventava di ghiaccio. Non potevo parlare né mangiare. Non riuscivo nemmeno a pregare. Restavo seduto a lungo, immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Era come se il mio corpo si fosse trasformato in pietra.
Se quelle persone non mi avessero mai incontrato, o non avessero mai ascoltato il mio insegnamento, non si sarebbero mai trovate in una cella fredda e solitaria, e non sarebbero mai morte in quel modo. Morendo, avevano sofferto al posto mio. Mi chiesi: «La mia vita vale abbastanza da poter essere scambiata con la loro? Come posso prendere la responsabilità per l’evangelizzazione del blocco comunista, che loro hanno assunto al posto mio?».
Non potevo parlare. Caddi in una disperazione che sembrava non avere fine, come se fossi stato scaraventato in acque profonde. Vidi Marie Zivna davanti a me, nelle sembianze di una farfalla gialla. La farfalla gialla fuggita dalla prigione della Cecoslovacchia batteva le ali come per dirmi di essere forte e non abbattermi. Perseverando nel suo lavoro missionario a rischio della sua vita, Marie si era davvero trasformata da bruco in una bellissima farfalla.
I missionari che vivevano in quelle circostanze estreme spesso ricevevano comunicazioni spirituali attraverso sogni e visioni. Erano isolati e non potevano comunicare liberamente con l’esterno, perciò Dio dava loro tanti messaggi spirituali per mostrare loro il cammino da percorrere. Accadeva spesso che un missionario che si era disteso a dormire brevemente avesse un sogno in cui gli veniva detto: «Alzati subito e vai da qualche altra parte». Faceva come gli era stato detto nel sogno, e più tardi scopriva che i servizi segreti avevano perquisito il posto dove stava riposando.
In un altro caso, un membro ebbe un sogno in cui una persona che non aveva mai visto prima gli disse come avrebbe dovuto condurre il suo lavoro. Più avanti, quando m’incontrò per la prima volta, esclamò: «Sei tu la persona che ho visto in sogno».
Alla fine in Canada, dopo aver presentato la documentazione che suffragava la mia dichiarazione di essere anticomunista, riuscii a ricevere il visto per gli Stati Uniti. La ragione per cui affrontai tutte queste difficoltà per andare in America era che volevo combattere le forze oscure che avevano prodotto il degrado morale di quel Paese. Lasciai la Corea per dichiarare guerra alle forze del male. In quel tempo, tutti i problemi fondamentali del mondo - il comunismo, la droga e la decadenza morale - erano mescolati tra loro in un miscuglio infernale.
Dichiarai: «Sono venuto in America come pompiere e come medico. Se la casa prende fuoco, deve venire un pompiere e, se qualcuno è malato, c’è bisogno di un dottore». Io ero come un pompiere giunto in America per spegnere l’incendio dell’immoralità e come un dottore venuto a curare l’America della malattia che le aveva fatto perdere la grazia di Dio e l’aveva portata sull’orlo della distruzione.
L’America nei primi anni ’70 del secolo scorso era impegnata nella guerra del Vietnam e gli attivisti inscenavano manifestazioni di protesta. Era un paese seriamente diviso. I giovani alla ricerca del senso della vita sperimentavano i superalcolici, le droghe e il sesso libero, dimenticando la loro anima eterna. Le principali religioni, che avrebbero dovuto guidare quei giovani, non svolgevano il loro ruolo; non riuscivano ad aiutarli a mettere fine al loro vagare senza meta ed a tornare a stili di vita appropriati. La cultura edonista e materialista trascinava a fondo tanti giovani, che non trovavano nulla a cui dedicare il loro cuore.
Poco dopo essere arrivato in America, cominciai a girare il Paese, parlando sui temi «Il nuovo futuro del Cristianesimo» e «La speranza di Dio per l’America». Davanti a vaste platee, criticai i difetti dell’America come nessun altro avrebbe fatto. Parlai di come l’America fosse stata fondata sullo spirito puritano (4) e fosse cresciuta fino a diventare la nazione più forte del mondo in appena duecento anni, perché aveva ricevuto amore e benedizione sconfinati da parte di Dio. Ricordai ai miei ascoltatori che la libertà dell’America veniva da Dio, ma l’America aveva ormai messo da parte Dio. «L’America ha una grande tradizione - affermavo - tutto quello che dovete fare è resuscitarla». Andai in America per risvegliarne lo spirito, per salvarla dalla distruzione, per spronare la gente a pentirsi e ritornare a Dio.
Il nostro futuro è nell’oceano
Mentre viaggiavo nel mondo, nessuno sapeva dei progetti che stavamo studiando per sviluppare una fondazione economica a livello mondiale. Dal momento che la chiesa cresceva, ed il numero delle missioni aumentava, la quantità di denaro necessaria per sostenere queste attività aumentava in modo vertiginoso. Avevamo bisogno di entrate. Mentre visitavo quarantotto degli Stati che compongono gli USA, pensavo continuamente al tipo d’imprese commerciali che avrebbero potuto sostenere le attività che avevamo programmato.
Pensai al fatto che gli Americani mangiavano carne tutti i giorni. Mi informai sui prezzi delle mucche e vidi che un capo di bestiame che si vendeva per pochi soldi in Florida poteva costare diverse centinaia di dollari nello stato di New York. Ma quando mi informai sui prezzi dei tonni, scoprii che un solo esemplare di tonno rosso (5) valeva, allora, più di quattromila dollari. I tonni depongono un milione e mezzo di uova per volta, mentre la mucca partorisce un solo vitello alla volta. Era chiaro che la pesca dei tonni sarebbe stata un’attività molto più redditizia che l’allevamento del bestiame.
Il problema era che gli Americani non mangiavano molto pesce. I Giapponesi, invece, andavano matti per il tonno. C’erano allora molti Giapponesi residenti negli Stati Uniti e ristoranti di alto livello, gestiti da Giapponesi, che vendevano il tonno crudo a caro prezzo. Inoltre, alcuni Americani stavano imparando a gustare il pesce crudo e apprezzavano il tonno.
Il pianeta sul quale viviamo è coperto dal mare più che dalla terra. Gli Stati Uniti si affacciano su due oceani e perciò hanno abbondanza di pesce. Peraltro, oltre il limite di duecento miglia (trecentosettanta chilometri) dalla costa, nessun paese può avanzare rivendicazioni territoriali sull’oceano. Chiunque può andarci a pesca. Per avviare una fattoria o un allevamento, dobbiamo comprare del terreno, ma questo non è necessario nell’oceano. Tutto ciò di cui avevamo bisogno era un’imbarcazione con la quale potessimo allontanarci quanto fosse necessario per pescare.
L’oceano è pieno di cose da mangiare; inoltre, sulla superficie dell’oceano si svolge una fiorente attività di trasporto. Le navi trasportano i prodotti di tutte le nazioni del mondo perché siano venduti altrove. L’oceano è un forziere di tesori, che garantisce all’umanità un futuro splendido. Per questo motivo insegno a coloro che s’interessano del futuro dell’umanità a preoccuparsi degli oceani. Amando ed ereditando gli oceani, possiamo ereditare il futuro.
Acquistammo diverse imbarcazioni negli Stati Uniti. Non erano le grandi navi che si vedono a volte nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, ma barche da pesca di lunghezza tra i dieci e gli undici metri. Erano barche da pesca della grandezza di uno yacht, che non avevano subito gravi incidenti. Queste barche erano stazionate a San Francisco, a Tampa, in Washington e in Alaska. Comprammo anche un cantiere per la riparazione delle barche.
Facemmo molte ricerche. Misurammo la temperatura dell’acqua con una barca in ciascuna regione. Andammo a vedere quanti tonni venivano catturati ogni giorno e inserimmo i dati in un diagramma. Non ci limitammo a utilizzare i dati creati in precedenza dagli esperti: i nostri membri andarono in acqua loro stessi per raccogliere le informazioni. Come riferimento usammo i risultati degli studi condotti nell’area dai ricercatori universitari. Inoltre andai personalmente in quelle zone, vissi lì, verificai quei dati. Non esistevano dati più accurati dei nostri.
Affrontammo tante difficoltà per condurre quelle ricerche, ma non le tenemmo per noi stessi. Al contrario, le condividemmo con l’industria della pesca. Sviluppammo anche nuove zone di pesca. Se la pesca in un’area è troppo intensa, la popolazione ittica viene depauperata. È importante sfruttare nuovi specchi di mare. In breve tempo generammo un forte impatto sull’industria peschereccia statunitense. Sviluppammo l’attività della pesca d’altura. La nostra idea era che una barca d’altura sarebbe andata in mare aperto e avrebbe pescato per almeno sei mesi senza rientrare in porto. Quando la barca avesse completato il suo carico di pesce, un’imbarcazione da trasporto l’avrebbe raggiunta, ne avrebbe prelevato il pesce e l’avrebbe rifornita di vettovaglie e carburante. La nave avrebbe avuto celle frigorifere dove immagazzinare il pescato per lunghi periodi.
Il nome della nostra barca era «New Hope» ed era ben conosciuta per la sua pesca abbondante. Salii anch’io su quella barca per pescare tonni. La gente ha spesso paura di salire su una barca. Quando offrivo ai giovani di venire in mare, la loro prima reazione era spesso di timore: «Soffro il mal di mare» mi rispondevano, oppure: «Mi basta salire su una barca che comincio a provare nausea e mi sento come se stessi per morire».
Così, salii io per primo sulla barca. Da quella volta, andai a pesca quasi tutti i giorni per sette anni. Ancora adesso che ho novant’anni mi piace andare in mare ogni volta che ne ho il tempo. Ora, sono sempre più numerosi i giovani che dicono di voler uscire con le barche. Anche le donne hanno sviluppato questa passione. Di qualsiasi compito si tratti, se il capo lo fa per primo, gli altri seguono. Il risultato è che sono diventato famoso come pescatore di tonni.
Non sarebbe comunque stato molto utile limitarci a catturare i tonni. Dovevamo anche riuscire a venderli al giusto prezzo. Creammo un impianto per la lavorazione del tonno e io stesso mi occupai della loro vendita. Conservavamo i pesci in camion frigoriferi e andavamo in giro a venderli. Dove la commercializzazione risultava difficile, aprivamo ristoranti specializzati in pesce, che vendevamo direttamente ai consumatori. Creata la nostra catena di ristoranti, la gente non poteva più ignorarci.
Gli Stati Uniti hanno tre delle quattro aree di pesca più grandi del mondo. I tre quarti della popolazione ittica mondiale vivono in acque vicine agli Stati Uniti. Ciononostante, negli Stati Uniti c’è un numero relativamente limitato di pescatori e l’industria ittica è assai poco sviluppata. Il governo ha adottato varie misure, intese a promuovere l’attività della pesca, senza ottenere alcun risultato di rilievo. Il governo aveva offerto in vendita barche a prezzi abbondantemente scontati, a condizione che gli acquirenti le utilizzassero per almeno due anni e mezzo, ma pochi avevano approfittato di quell’opportunità. La situazione era davvero frustrante. Ma quando noi cominciammo a investire capitali nell’attività della pesca, facemmo scalpore in tutti i porti nei quali ci stabilimmo. Ciò non è sorprendente: dovunque ci stabilivamo portando i nostri investimenti, le comunità prosperavano. Il nostro compito, in definitiva, era quello di essere pionieri di nuovi mondi. Quant’è emozionante aprire nuove strade!
L’oceano cambia continuamente. Si dice che la mente umana muti mattina e sera, ma il mare cambia momento per momento. È questo il motivo per cui il mare è, allo stesso tempo, misterioso e bello. L’oceano abbraccia tutto quello che sta in cielo e in terra. Il vapore può addensarsi in un luogo specifico e formare nuvole o diventare pioggia e ricadere giù.
Io sono innamoratissimo della natura, perché non tradisce mai. Ciò che è in alto scende e ciò che in basso sale. Tutto cambia alla ricerca dell’equilibrio. Quando sto seduto tenendo una canna da pesca mi sembra di avere a disposizione tutto il tempo del mondo.
Cosa c’è mai nell’oceano a frapporsi sulla nostra strada? Chi è lì a metterci fretta? Abbiamo tanto tempo per noi stessi. Tutto quello che dobbiamo fare è guardare il mare e parlargli. Più tempo un uomo trascorrerà sul mare, più ricchi diventeranno gli aspetti spirituali della sua vita. Il mare, però, può essere calmo un minuto, per poi cambiare rapidamente aspetto e scatenarsi in violente tempeste. Onde alte molte volte più di un uomo si levano davanti alla barca, come se volessero divorarla. Un vento forte strappa le vele, producendo un suono terribile.
Pensate, comunque, a questo. Anche quando le onde si sollevano e il vento soffia in modo terrificante, i pesci nell’acqua dormono senza problemi. Si lasciano andare alle onde senza opporre resistenza. È quello che ho imparato dai pesci. Ho deciso di non avere paura, non importa quanto le onde possano essere forti. Mi lascio trasportare dalle onde. Divento un tutt’uno con la barca e ci solleviamo al ritmo delle onde. Dopo aver cominciato a fare così, il mio cuore non è stato più agitato, e non ha avuto più importanza che tipo di onde mi venissero incontro. Il mare è stato per me un tale meraviglioso maestro nella vita, che ho creato il programma «Ocean Challenge», la Sfida dell’Oceano, perché i giovani ricevano quella formazione alla leadership che solo l’oceano può dare.
Una nuova rivoluzione americana
Il caldo benvenuto iniziale che mi era stato offerto dagli americani cominciò a raffreddarsi, fino a trasformarsi in ostilità. Si domandarono cinicamente come potesse un leader religioso venuto dalla Corea, un paese insignificante a malapena sfuggito alla fame e alla guerra, permettersi di esortare gli Americani a pentirsi. Ma gli Americani non furono i soli ad opporsi alle mie parole. La reazione dell’Armata Rossa giapponese (6), alleata con i comunisti in ambito internazionale, fu particolarmente forte. Furono anche scoperti, dagli agenti dell’FBI, dei terroristi che cercavano di introdursi nel nostro Centro studi di Boston dove spesso mi trattenevo. Ci furono così tanti attentati contro di me che i miei figli non potevano andare a scuola senza essere accompagnati da una guardia del corpo. A causa delle continue minacce di morte, per un certo periodo parlai riparato da un vetro antiproiettile.
Nonostante tanta opposizione, quelle serie di lezioni, tenute dall’uomo con gli occhi minuti che veniva dall’Oriente, incontrarono sempre più interesse. La gente prese ad ascoltare quegli insegnamenti, che erano completamente diversi da tutto quanto aveva ascoltato fin allora. Il contenuto di quelle lezioni, che trattavano dei principi fondamentali dell’universo e cercavano di risvegliare lo spirito dei fondatori dell’America, era una boccata d’aria fresca per gli Americani sprofondati nell’inferno dell’immoralità e dell’indolenza.
Attraverso le mie lezioni, gli Americani sperimentarono una rivoluzione delle coscienze. I giovani iniziarono a seguirmi, chiamandomi «Padre Moon» o «Reverendo Moon» e tagliando i capelli lunghi fino alle spalle e le barbe incolte. Quando cambiano le apparenze, cambia anche la mente. Così Dio cominciò a entrare nel cuore di giovani che erano stati sino ad allora schiavi dell’alcolismo e delle droghe.
Le mie lezioni erano seguite da tanti di giovani, che trascendevano le diverse confessioni. Quando interrompevo i miei sermoni per chiedere: «C’è qui qualche Presbiteriano?», molti giovani alzavano la mano dicendo «Eccomi!». Se chiedevo: «C’è qualche Cattolico?», altre mani si alzavano. Quando chiedevo: «Ci sono Battisti?», molti rispondevano a loro volta: «Sono qui!».
Dicevo loro: «Perché siete venuti qui invece che andare ad ascoltare un sermone della vostra religione? Andate a casa, andate nella vostra chiesa ad ascoltare la parola di Dio». Quando parlavo in questo modo, il pubblico rispondeva: «Vogliamo sentire il Reverendo Moon!». Venivano sempre più persone, e si unirono a noi anche alcuni ministri delle chiese presbiteriane e battiste, che portarono con sé i giovani delle loro congregazioni. Con l’andar del tempo, il Reverendo Moon divenne un mito, che rappresentava la rivoluzione delle coscienze nella società americana.
Insegnavo ai giovani americani come sopportare le difficoltà. Spiegavo loro diffusamente il principio secondo cui un uomo dev’essere capace di dominare se stesso prima di poter governare l’universo. I miei insegnamenti diedero nuova ispirazione alla gioventù americana che viveva in un tempo di confusione. Si proclamarono d’accordo con i miei messaggi sulla purezza sessuale e la vera famiglia. L’accoglienza era così entusiasta che anch’io ero profondamente emozionato.
«Volete portare la croce?» chiedevo loro. «Nessuno vuole prendere la strada della croce. Magari il vostro cuore vuole andare da quella parte, ma il vostro corpo dice no! Il fatto che qualcosa sia gradevole all’occhio non significa necessariamente che sia buono per il cuore. Tante cose si mostrano buone, ma un esame del loro aspetto interiore dimostra che sono cattive. Se vi accorgete che state cercando sempre e solo cose piacevoli all’occhio, dovete immediatamente fermarvi e dirvi: “Mascalzone!”. Allo stesso modo, se sentite il desiderio di mangiare soltanto cose gradevoli al palato, dovete rimproverare il vostro corpo, dirgli: “Mascalzone!” e non farlo. Voi giovani sentite attrazione per l’altro sesso, non è vero? Anche in questo caso, dovete prendere una posizione forte contro questi desideri. Un uomo che non sa controllare se stesso non è capace di fare niente in questo mondo. Pensate che se crollate voi crolla l’intero universo». Insegnavo loro il motto che avevo seguito da giovane: «Prima di cercare di comandare l’universo, perfeziona la tua capacità di guidare te stesso».
L’America godeva di tanta ricchezza ed era ossessionata dal benessere materiale. Io stavo nel mezzo di quella civiltà materialista e parlavo dei temi della mente e del cuore. La mente non può essere vista con gli occhi né presa nelle mani, e comunque, chiaramente, noi siamo diretti dalla nostra mente. Senza la mente, non siamo nulla. Poi, io parlavo dell’amore vero, dell’amore incentrato in Dio, che deve guidare la mente. Dicevo che la libertà vera può essere gustata soltanto quando abbiamo una chiara comprensione di noi stessi, su una base di amore vero, e siamo in grado di esercitare l’autocontrollo.
Insegnavo loro il valore della fatica. La fatica non è sofferenza, ma creazione. La ragione per cui un uomo può lavorare tutta la vita ed essere felice sta nel fatto che la fatica è collegata al mondo di Dio. L’impegno degli uomini non consiste in altro, se non prendere le cose che Dio ha creato e modellarle in maniere differenti. Se pensate che state facendo qualcosa per offrirla come un regalo a Dio, allora la fatica non è qualcosa da valutare negativamente. Molti giovani americani erano talmente dipendenti dalla vita di agi, offerta loro dalla società materialista, da non saper riconoscere la gioia del lavoro. Così insegnai loro a lavorare con gioia.
Inoltre, risvegliai in loro la gioia di amare la natura. I giovani erano prigionieri della cultura immorale, prevalente nelle città, resi schiavi dalla loro vita di egoismo, così io parlai del valore della natura. La natura ci è stata data da Dio. Dio ci parla attraverso la natura. È peccato distruggere la natura per un attimo di gratificazione o per un’insignificante somma di denaro. La natura che distruggiamo ritornerà da noi alla fine come veleno e renderà la vita difficile per i nostri discendenti. Dobbiamo ritornare alla natura e ascoltare ciò che essa ci dice. Spiegai ai giovani americani che, quando apriamo il nostro cuore e ascoltiamo quello che la natura ci dice, possiamo sentire la parola di Dio.
Nel settembre del 1975 fondammo lo «Unification Theological Seminary» in Barrytown, nello Stato di New York, situato a nord dell’omonima città. Il corpo insegnante fu formato su base interreligiosa: aderirono professori di religione ebraica, protestante, cattolica, ortodossa e di varie religioni orientali.
Quando spiegavano le loro religioni, i nostri studenti ponevano loro domande molto difficili. Le lezioni divenivano sempre dei momenti di intenso dibattito. Quando tutte le religioni si riuniscono e discutono, cominciano ad abbattere i concetti errati che ciascuna ha delle altre e cominciano a comprendersi meglio. Tanti giovani brillanti hanno portato a termine i loro corsi di laurea nel nostro seminario per entrare poi in corsi di dottorato ad Harvard, Yale ed altre importanti università americane. Oggi sono in grado di diventare dei leader in campo religioso a livello globale.
Manifestazione davanti al monumento a Washington, 1976
Nel 1974 e nel 1975 fui invitato a parlare al Campidoglio di Washington. Parlai ai membri della Camera dei Rappresentanti sul tema «Un’unica nazione sotto Dio». Mi rivolsi ai parlamentari nello stesso modo in cui avevo parlato ai giovani nelle strade, dicendo: «L’America è nata dalla benedizione di Dio. Questa benedizione, tuttavia, non è destinata solamente agli americani. Si tratta della benedizione di Dio per il mondo, data attraverso l’America. L’America deve capire il principio che sta alla base di questa benedizione e sacrificarsi per la salvezza del mondo. Perché questo si realizzi, deve esserci un risveglio che riconduca questo Paese allo spirito della sua fondazione. Il Cristianesimo, che è stato diviso in dozzine di confessioni diverse, deve essere riunificato, deve abbracciare tutte le altre religioni e deve aprire un futuro nuovo per la civiltà mondiale». Fui il primo capo religioso estero invitato a parlare al Congresso degli Stati Uniti. Dopo il secondo invito, molte più persone si mostrarono interessate a scoprire chi fosse quest’uomo, il Reverendo Moon, venuto dalla Corea.
L’anno seguente, il 1° giugno 1976, organizzammo una festa a New York City, nello stadio della squadra di baseball degli Yankees, per celebrare il duecentesimo anniversario dell’indipendenza dell’America. In quel tempo il Paese non si sentiva abbastanza in pace, non aveva lo spirito giusto per festeggiare il proprio anniversario. Incombeva la minaccia del comunismo e i giovani americani, presi da cose come la droga e il sesso libero, conducevano una vita molto distante dai desideri di Dio. Sentivo che l’America era seriamente malata. Andai a quella celebrazione con la sensazione di essere come un chirurgo che dovesse aprire il cuore di una New York che giaceva inferma.
Quel giorno cadde una pioggia torrenziale e un vento di bufera strappò tutte le decorazioni che avevamo sistemato intorno al campo, ma nessuno pensò di scappare via dalla pioggia. La banda cominciò a suonare «Tu sei il mio sole» e tutti nello stadio cominciarono a cantare all’unisono. Cantavano una canzone sul sole, anche se erano fradici di pioggia. A un certo punto, pioggia e lacrime cominciarono a mischiarsi insieme. Poi, incredibilmente, quando salii sul palco per parlare, il sole fece la sua comparsa tra le nuvole. Fu come se Dio avesse ascoltato quella canzone.
Avevo praticato un po’ di pugilato ai tempi della scuola. Un buon pugile, anche dopo esser stato colpito da una serie di ganci, continua a combattere senza problemi. Ma anche il pugile più forte comincia a barcollare, quando gli assestate un solido montante. Io stavo cercando di infliggere un montante all’America. Sentivo che c’era bisogno di una manifestazione molto più grande, rispetto a quelle che avevamo organizzato sino ad allora, perché il nome «Sun Myung Moon» rimanesse indelebilmente scolpito nella mente degli Americani.
Il Monumento a Washington si trova nel National Mall, nel centro della capitale degli Stati Uniti. Ha la forma di un obelisco ed è alto centoottantatre metri. Un vasto prato si estende dal monumento fino al lago artificiale, posto davanti al Lincoln Memorial. Programmai di tenere una grande manifestazione proprio in quel luogo, il cuore simbolico dell’America.
Per organizzare un incontro lì, tuttavia, dovevamo avere il permesso del governo e della polizia nazionale dei parchi degli Stati Uniti. A molti funzionari americani ero poco simpatico. In precedenza, avevo messo delle inserzioni sui giornali, in cui avevo consigliato al popolo americano di perdonare il presidente Richard Nixon, nell’occasione della crisi scoppiata in seguito allo scandalo Watergate (7). La mia proposta era stata davvero malvista. Così, il governo americano continuò a negarci il permesso di usare quell’area. Riuscimmo ad ottenerlo soltanto quaranta giorni prima dell’evento.
Anche i nostri membri mi dissero che il progetto era troppo ambizioso e avremmo dovuto rinunciare. Il National Mall, che si estende tutt’intorno al Monumento a Washington, è un parco all’aperto nel centro dell’area urbana. Non ci sono tanti alberi, ma solo un’ampia distesa d’erba. Se il numero dei partecipanti fosse risultato modesto la cosa non sarebbe passata inosservata. Per riempire un’area tanto grande ci sarebbero volute centinaia di migliaia di persone. I nostri membri si domandavano come sarebbe stata possibile una cosa del genere.
Prima d’allora, soltanto due persone avevano organizzato grandi incontri al National Mall. Martin Luther King aveva tenuto una manifestazione per i diritti umani sulle scalinate del Lincoln Memorial e il Reverendo Billy Graham vi aveva radunato una grande assemblea. Perciò, si trattava di un posto con una forte valenza simbolica. Era quello il posto che stavo sfidando.
Pregai senza sosta per quella manifestazione. Riscrissi quattro volte il discorso che avrei dovuto pronunciare. Una settimana prima dell’evento ero ancora indeciso su cosa avrei dovuto dire. Alla fine, tre giorni prima della manifestazione, completai il testo. Generalmente non leggo discorsi preparati in anticipo. In quel caso feci un’eccezione, perché volevo che l’evento andasse bene. Sapevo che si sarebbe rivelato un passaggio particolarmente importante, anche se non avevo del tutto chiaro in che modo lo sarebbe stato.
Non dimenticherò mai quello che accadde quel giorno, il 18 settembre 1976. La gente cominciò ad arrivare al Monumento di Washington sin dalla prima mattina. Si riunirono circa trecentomila persone. Era impossibile dire da dove fossero arrivate: avevano pelle e capelli di tutti i colori. Tutte le razze che Dio ha sparso sulla terra si erano radunate lì quel giorno: era una manifestazione su scala mondiale che non aveva bisogno di nessuna ulteriore descrizione.
Di fronte a quella folla dichiarai: «Dio ha preparato l’America per duecento anni. Questo è il momento del risveglio. L’America deve accettare la propria responsabilità globale. Armata del “Godism” (8), l’America deve liberare il mondo comunista e costruire infine il regno di Dio qui sulla terra». Il mio discorso fu interrotto molte volte da acclamazioni e applausi. Newsweek, nella rassegna fotografica di fine anno degli avvenimenti salienti del 1976, incluse una mia fotografia e mi citò come parte del revival degli anni ‘70.
Dall’altro lato, un numero crescente di persone cominciava a guardarmi con sospetto e paura. Per loro non ero altro che uno strano mago venuto dall’Est. Non ero un bianco in cui potessero riporre fiducia o che potessero seguire.
Il fatto che stessi dicendo cose in qualche modo diverse da quanto avevano ascoltato nelle loro chiese li faceva sentire estremamente insicuri. In particolare, non potevano tollerare una situazione in cui dei giovani di pelle bianca rispettavano e seguivano un Asiatico dagli occhi sottili come due fessure. Cominciarono a spargere la diceria che stessi manipolando il cervello di bianchi giovani ed innocenti. Il gruppo che mi si opponeva si riunì in fondo al prato, alle spalle di coloro che mi urlavano il loro sostegno. Sapevo che un altro momento critico stava per abbattersi su di me, ma non avevo paura perché stavo chiaramente facendo ciò che era giusto. L’America è ben conosciuta come un paese di libertà e uguaglianza, dove persone di tutte le razze vengono per realizzare il sogno americano. In realtà però vi sono dure lotte causate dalla discriminazione razziale e religiosa. Si tratta di malattie croniche che sono radicate profondamente nella storia americana, e perciò sono molto più difficili da curare rispetto alle patologie sociali, quali l’immoralità e il materialismo, emerse con l’opulenza degli anni ‘70.
In quel periodo visitai spesso le chiese afroamericane, impegnandomi nella promozione dell’armonia ecumenica. Tra i capi religiosi di colore ce n’erano alcuni che, alla maniera di Martin Luther King, operavano per mettere fine alla discriminazione razziale e stabilire il mondo di pace di Dio. Alcuni di quei ministri religiosi avevano appeso alle pareti dei loro uffici immagini dei mercati di schiavi, che erano esistiti per anni ed anni prima di essere dichiarati illegali. Una di quelle immagini raffigurava un uomo di colore che veniva arso vivo appeso a un albero. In un’altra, c’erano uomini e donne negri spogliati dei loro abiti, che venivano esaminati come merci da potenziali acquirenti. In un’altra ancora si vedeva un bimbo di colore che piangeva mentre veniva strappato alla madre. È difficile credere che degli esseri umani abbiano potuto essere capaci di compiere gli atti di barbarie rappresentati così chiaramente in quelle immagini.
«Aspettate e vedrete» dissi il 24 ottobre 1975 nel corso di una riunione a Chicago. «Entro i prossimi trent’anni ci sarà un presidente degli Stati Uniti mulatto, nato da una famiglia interrazziale».
La profezia che feci quel giorno è diventata realtà con l’elezione del presidente Barak Obama, che ha trascorso buona parte della sua vita a Chicago. Quella profezia non si è realizzata automaticamente. Molti hanno versato sangue e sudore per risolvere il conflitto tra le razze e il loro impegno ha dato finalmente i suoi frutti.
Sorprendentemente, un gran numero di ministri religiosi delle chiese ufficiali vennero con le loro congregazioni alla manifestazione del Monumento a Washington. Avevano riconosciuto che il mio messaggio trascendeva le confessioni e ispirava le giovani generazioni. Avevo invitato la gente a superare le divisioni tra le confessioni e le religioni, e quelle parole si erano realizzate con quell’adunata. La manifestazione del Monumento a Washington fu un miracolo. Le centinaia di migliaia di persone che vi parteciparono ne fecero uno degli incontri con più partecipanti mai tenuti sul prato del National Mall.
«Piangete per il mondo, non per me»
Il bene è spesso seguito dal male. Alcuni dipinsero i baffi sul mio ritratto, cercando di paragonarmi a Hitler. Mi definirono antisemita e sostennero che i miei insegnamenti erano contro gli Ebrei. Ci furono problemi anche con i cristiani. Con l’aumentare dei giovani che mi seguivano e dei ministri religiosi che volevano apprendere il Principio, le chiese ufficiali americane cominciarono a perseguitarmi. Infine, degli esponenti delle sinistre mi attaccarono quando affermai che l’America aveva la responsabilità di fermare la diffusione del comunismo nel mondo. Anche loro cominciarono a cercare qualche maniera per bloccare le mie attività.
Man mano che la nostra popolarità cresceva, cominciavano a sorgere perplessità e dubbi di ogni genere sul mio conto. I giovani che si sentivano ispirati a divulgare i miei insegnamenti lasciavano le università o si licenziavano dal lavoro e viaggiavano in lungo e in largo nel paese, per diffondere il nostro messaggio e raccogliere fondi per le nostre attività. Comprensibilmente, i loro genitori cominciarono a preoccuparsi per il loro benessere.
Nello stesso periodo gli Stati Uniti erano invischiati nella crisi del Watergate. Incontrai il presidente Richard Nixon e gli raccomandai di guidare la nazione cercando di capire quale fosse la volontà di Dio per l’America. Rivolsi al popolo americano un appello a «perdonare, amare e unirsi» attorno alla posizione del presidente. Questo accese l’opposizione dei mezzi di comunicazione di sinistra. Questioni che fino ad allora non avevano creato alcun problema mi piombarono improvvisamente addosso. Nello stesso tempo, i conservatori affermavano che ero troppo liberale e i miei insegnamenti avrebbero demolito i valori tradizionali.
Molti cristiani erano scontenti della spiegazione della croce che io presentavo: Gesù era venuto come Messia, e la crocifissione non era predestinata da Dio. Con l’uccisione di Gesù, il piano di Dio per la fondazione del regno della pace non poté essere realizzato. Se Israele lo avesse ricevuto come il Messia, Gesù avrebbe stabilito un mondo di pace, unendo le culture e le religioni dell’Est e dell’Ovest. Gesù, invece, morì sulla croce e la provvidenza di Dio per il completamento della salvezza fu ritardata fino al Secondo Avvento. Questa interpretazione della croce suscitò una forte opposizione. Fui considerato un nemico sia dalle chiese ufficiali che dalle comunità ebraiche.
Cercarono in tutti i modi di mandarmi via dall’America, ciascuna in base alle proprie motivazioni. Alla fine, fui rinchiuso ancora una volta in prigione. Non avevo fatto altro che lavorare alla ricostituzione della moralità dell’America, per riportarla nella posizione di nazione rispettosa della volontà di Dio, ma fui accusato di aver evaso le tasse.
A quell’epoca, avevo abbondantemente passato i sessanta anni. Durante i primi tre anni che avevo trascorso in America, il denaro pervenuto come offerta da tutto il mondo era stato depositato presso una banca di New York su un conto a mio nome, e io avevo operato come fiduciario, secondo una prassi comune a diverse chiese. In quegli anni, i fondi giacenti nel conto avevano prodotto degli interessi, e mi fu imputato di non aver pagato le tasse, per un importo di circa 7.500 dollari, su quegli interessi. Normalmente sarebbe stata applicata una multa; io, invece, fui processato nel 1982 ed incarcerato nel penitenziario federale di Danbury, in Connecticut, il 20 luglio 1984.
Il giorno prima di presentarmi in prigione, tenni un incontro con i membri presso il nostro Centro studi «Belvedere» di Tarrytown, nello stato di New York. Fu un incontro molto commovente. L’edificio ed il prato erano gremiti delle migliaia di membri che pregavano e piangevano per me. Dissi loro con fermezza di non scoraggiarsi: «Sono innocente e non ho fatto niente di sbagliato. Vedo una viva luce di speranza sorgere oltre Danbury. Non piangete per me, piangete per l’America. Amate l’America e pregate per l’America». Di fronte ai giovani oppressi dalla tristezza, sollevai le braccia in segno di speranza.
La dichiarazione che avevo fatto prima di entrare in prigione fece molto scalpore tra le persone di religione. Si costituì una «Fraternità della sofferenza comune» e ci fu una grande iniziativa di preghiera in mio aiuto. La Fraternità costituì un grande movimento di sostegno da parte dei ministri di tutte le confessioni e le religioni, preoccupati per l’attacco alla libertà di religione in America.
Il giorno in cui entrai in prigione non avevo alcuna paura. Avevo esperienza della vita in prigione. Non era così, invece, per la gente intorno a me. Erano preoccupati che qualche mio irriducibile oppositore potesse attentare alla mia vita. Mi diressi verso la prigione a testa alta.
«Perché mio padre deve andare in prigione?»
Anche nella prigione di Danbury tenni fede al mio principio di vivere per gli altri. Mi svegliavo presto la mattina per pulire i posti che erano sporchi. Alla mensa, gli altri si chinavano sui piatti, si addormentavano o chiacchieravano tra loro; io sedevo con dignità mantenendo la schiena dritta. Quando mi veniva dato un lavoro da fare, m’impegnavo più degli altri e mi interessavo a come stavano gli altri. Nel tempo libero leggevo la Bibbia. Un prigioniero, vedendo che leggevo la Bibbia giorno e notte, mi disse: «Quella è la tua Bibbia? Ecco la mia. Dacci un’occhiata!» e mi lanciò un giornale. Era la rivista pornografica Hustler.
In prigione ero conosciuto come una persona che lavorava in silenzio. Leggevo libri e meditavo. Dopo aver trascorso tre mesi in questo modo, feci amicizia con i prigionieri e con le guardie. Divenni amico di un tossicodipendente e del prigioniero che aveva definito la rivista pornografica la sua bibbia. Dopo un mese o due, i compagni di prigionia cominciarono a condividere con me le cose che ricevevano da fuori. Quando giungemmo a condividere le cose che avevamo nel cuore, fu come se la primavera fosse arrivata dentro la prigione.
In effetti, gli Stati Uniti non volevano veramente mettermi in galera. Avevano iniziato il processo contro di me mentre ero all’estero, durante un viaggio in Germania, ed a loro sarebbe bastato che non tornassi nel Paese. Non volevano arrestarmi, ma solo farmi andare via. Stavo diventando molto famoso in America e il numero delle persone che mi seguivano era in costante crescita. Così, decisero di porre degli ostacoli sul mio percorso. Proprio come in Corea, costituivo una spina nel fianco delle chiese ufficiali. Sapendo quale fosse il loro scopo, scelsi di ritornare in America e andare in prigione. Avevo ancora tanto da fare in quel Paese.
Penso che andare in prigione non sia una cosa completamente cattiva. Se devo convincere la gente che abita nella valle delle lacrime a pentirsi, io per primo devo versare lacrime. Se io per primo non provo la stessa disperazione nel cuore, non posso portare altre persone a seguire Dio. Il Cielo lavora in modi davvero misteriosi.
Durante la mia detenzione, settemila tra ministri religiosi e responsabili di associazioni religiose, accusarono il governo degli Stati Uniti di aver violato la libertà di religione e lottarono per la mia liberazione. Tra questi, il conservatore Rev. Jerry Falwell, dell’Associazione delle Chiese Battiste del Sud, e il liberale dott. Joseph E. Lowery, che anni dopo avrebbe pregato nel corso della cerimonia d’investitura del presidente Obama. Essi s’impegnarono in prima linea per la mia liberazione. Anche mia figlia In Jin, allora adolescente, marciò con loro. Di fronte a circa settemila ministri religiosi lesse tra le lacrime una lettera che aveva scritto al giudice che mi aveva condannato:
«La vita di mio padre è stata segnata dalle lacrime e dal dolore perché ha cercato di compiere la volontà di Dio. Adesso ha sessantaquattro anni. Il suo unico crimine è stato quello di amare l’America. Eppure in questo momento sta lavando i piatti o sta pulendo il pavimento della mensa della prigione. La settimana scorsa, sono andata a trovarlo e l’ho visto per la prima volta con l’uniforme da detenuto. Ho pianto a lungo. Mio padre ha detto che, invece di piangere per lui, dovevo pregare per l’America. Mi ha suggerito di trasformare la mia rabbia e il mio dolore in una forza potente, con la quale fare degli Stati Uniti un paese veramente libero.
Mi ha spiegato che in prigione lui è capace di superare qualsiasi difficoltà, sopportare qualsiasi ingiustizia e portare qualsiasi croce. La libertà di fede è la base di tutte le libertà. Io sono davvero grata a tutti voi qui per il vostro impegno a favore della libertà religiosa».
La mia pena fu ridotta di sei mesi per buona condotta e fui rilasciato dopo tredici mesi di detenzione. Il giorno della mia liberazione, a Washington, D.C. si tenne un banchetto di festeggiamento. Millesettecento tra ministri cristiani e rabbini ebrei erano riuniti per darmi il benvenuto. Nel mio saluto ai convenuti, ribadii la mia posizione a sostegno del superamento delle religioni e delle confessioni. Parlai con forza al mondo intero, sentendo che non avevo motivo di preoccuparmi della reazione dei miei oppositori:
«Dio non appartiene ad una confessione religiosa. Dio non s’invischia in marginali discussioni dottrinarie. Non ci sono distinzioni di nazionalità o di razza nel cuore di genitore di Dio. E neppure ci sono muraglie a separare i paesi e le culture. Anche oggi, Dio continua a fare quanto Gli è possibile, per abbracciare tutta la gente del mondo come Suoi figli e figlie. L’America oggi è afflitta da problemi razziali, da problemi derivanti dalla confusione dei valori e dal degrado morale, da sterilità spirituale, conseguenti al declino della fede cristiana, e dal problema del comunismo ateo. Queste sono le ragioni per cui ho risposto alla chiamata di Dio e sono venuto in questo paese. Il Cristianesimo oggi ha bisogno di un grande movimento di risveglio e deve riunirsi come un unico corpo. Anche i ministri religiosi devono riesaminare il ruolo che hanno svolto fino ad oggi e pentirsi.
La situazione che si creò duemila anni fa, quando Gesù venne e predicò il pentimento, si sta ripetendo oggi. Noi dobbiamo realizzare l’importante missione che Dio ha dato all’America. Le cose non possono continuare in questo modo. C’è bisogno di una nuova riforma».
Una volta rilasciato dalla prigione nulla più poté trattenermi. Continuai a parlare con ancora più forza di prima, per trasmettere un messaggio di avvertimento a un’America decaduta. Affermai ripetutamente, con parole forti, che il ritorno all’amore e alla moralità di Dio è l’unico modo per ridare vita all’America.
Ero stato imprigionato senza aver fatto nulla di sbagliato, ma anche lì era all’opera la volontà di Dio. Dopo la mia liberazione, le persone che avevano lavorato per il mio rilascio vennero a gruppi in Corea per apprendere di più sul mio lavoro. Vennero per scoprire cosa c’era nello spirito del Reverendo Moon che aveva attratto così tanti giovani americani. Al loro ritorno negli Stati Uniti, centoventi di questi ministri cristiani organizzarono la American Clergy Leadership Conference (9).
Note
(1) La «Tongil Industries» in seguito si è sviluppata fino a diventare un protagonista di primo piano nell’economia sudcoreana.
(2) Il tradizionale abito femminile coreano.
(3) Non si riferisce naturalmente alle tradizioni «esteriori», che fanno parte della cultura in senso lato di un popolo. Si riferisce invece alle tradizioni «interiori», e cioè alla trasmissione dei valori fondamentali, a livello di popolo e di famiglia.
(4) Oggi la parola «puritano» è usata spesso con un significato spregiativo, e viene attribuita da alcuni a coloro che, a loro giudizio, praticano o predicano un’esagerata morigeratezza nei costumi sessuali. In realtà il puritanesimo, nato nell’Inghilterra nella metà del 16° secolo, promuoveva il ritorno alla purezza dell’insegnamento del vangelo, lo studio personale della Bibbia, il sacerdozio universale, ed in generale una profonda riforma della struttura ecclesiastica.
(5) Al tempo in cui quest’attività fu avviata non esistevano ancora le attuali norme restrittive sulla pesca del tonno rosso.
(6) Una formazione terrorista giapponese di ispirazione comunista attiva fino ai primi anni ‘70.
(7) Con quell’invito, che all’epoca fece scalpore, il Rev. Moon non appoggiava incondizionatamente il Presidente Nixon: lo invitava anzi a chiedere perdono al Paese per l’errore politico e morale che aveva commesso; nel contempo invitava gli americani a perdonare il Presidente e ad unirsi a lui. Lo scopo era non indebolire politicamente l’America a livello internazionale in un momento particolarmente duro della guerra fredda.
(8) Sinteticamente, il modo di vita che pone Dio al centro di ogni nostra azione. Abbiamo lasciato l’espressione inglese in quanto comprensibile ma mal traducibile.
(9) Associazione formata da ministri religiosi di varie fedi.
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